Le parole sono importanti, anche nelle sentenze. E non si stanca di ripeterlo chi lavora nei tribunali e nei centri antiviolenza, come la penalista Elena Biaggioni, già vicepresidente della rete D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza): la contattiamo per commentare la sentenza del tribunale di Torino, che ha fatto parecchio rumore per alcune espressioni usate nelle motivazioni.

I giudici assolvono l’imputato per i maltrattamenti, e parlano di amarezza “umanamente comprensibile” per la separazione con l’ex moglie, colpita con un pugno al volto.

Il tema non è l’assoluzione, sulla quale non mi esprimo senza conoscere gli atti. Il problema è nelle motivazioni della sentenza, a partire dalla tecnica con cui è scritta: una formula molto stereotipata, potremmo dire, che tradisce pregiudizi e connotazioni moralistiche. Questo è un aspetto davvero grave, a mio parere: se ciò che leggiamo nelle motivazioni è alla base del convincimento del giudice, allora abbiamo un problema. Siamo di fronte ai cosiddetti stereotipi giudiziari.

Quale frase la colpisce di più?

Partirei proprio dall’inizio, quando si parla dell’attendibilità della persona offesa, che andrebbe recepita “con estrema cautela perché proveniente da una parte civile portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali”. Anche se è pacifico, per la Cassazione, valutare con attenzione l’attendibilità, mi sembra che il punto di partenza sia colpevolizzante, laddove la vittima – che porta delle placche di titanio in faccia per via del pestaggio ha legittimamente chiesto un risarcimento del danno.

Nel dibattito di questi giorni, c’è chi sostiene che anche una sentenza corretta nel merito rischia di scivolare nell’errore per l’uso di un linguaggio inadeguato.

Io la vedo esattamente così: dispiace molto leggere certe considerazioni in una sentenza. Come quando, ricordando che l’imputato rimproverò alla moglie di non avergli comunicato la sua relazione, si commenta: “come dargli torto”. Lo si direbbe, di qualunque altro reato? Perché certi commenti li leggiamo soltanto nell’ambito della violenza domestica? Ecco, quell’espressione supera decisamente i fatti per esprimere valutazioni personali, e questo è molto pericoloso: non solo nei casi di violenza di genere, ma in ogni caso.

Nel merito, la sentenza non riconosce i maltrattamenti perché mancherebbe la condotta abituale.

È uno dei grossi problemi con il reato di maltrattamenti, che riscontriamo spesso come avvocate dei centri antiviolenza. Le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono collegate proprio a questo concetto di abitualità, sul quale il Grevio del Consiglio d’Europa ha già espresso criticità, poiché non è in linea con la definizione di violenza domestica sancita dalla Convenzione di Istanbul. E mi pare che in questa direzione si muova anche la più recente giurisprudenza della Cassazione.

Quella di Torino non è la prima sentenza che fa discutere. Ma capita anche che le frasi “incriminate” vengano estrapolate o decontestualizzate per cavalcare l’indignazione, soprattutto sui social. Vede questo pericolo?

Il giudizio affrettato riguarda i social a 360 gradi, non solo nei confronti delle sentenze. Per questo sarebbe importante creare un rapporto fiduciario, che coinvolga voi giornalisti e anche noi “tecnici” del diritto, per discutere in maniera franca sul tema del linguaggio e sul messaggio che una motivazione veicola. Proverei a chiedermi se l’avvocatura si riconosce in quella modalità espressiva. Perché non basta dire: “Non avete letto la sentenza, non potete criticare”. Proviamo a rovesciare l’assunto, immaginando che chi commenta abbia letto ciò di cui parla, affrontando davvero il problema senza aggirarlo con certi “artifici”.

Direbbe che nei tribunali vive ancora un certo spirito inquisitorio, che mette sempre la donna sul banco degli imputati? Come denunciava Tina Lagostena Bassi nel 1979.

Quel tipo di cultura persiste e a un certo livello è fisiologico per l’accertamento delle responsabilità, rispetto al quale c’è ancora tanto da fare. Ma mi piace pensare che da “Processo per stupro” abbiamo fatto tanta strada. Ricordiamoci che sul tema del linguaggio e della vittimizzazione secondaria ci sono delle sentenze della Cedu che ammoniscono l’Italia, e il monitoraggio sull’implementazione delle sentenze da parte del nostro Paese è ancora aperto.

Servirebbe maggiore formazione per i magistrati?

Assolutamente. Lo stereotipo e il pregiudizio tendenzialmente operano ad un livello di automatismo culturale, non di volontà di perpetuarlo. A volte basta solo aprire gli occhi. L’idea è di indossare una lente che ti permetta di correggere la visione falsata dallo stereotipo e dal pregiudizio. E in questo la formazione dei magistrati è fondamentale.

Si insiste spesso sull’importanza di denunciare. Il fenomeno della vittimizzazione secondaria può scoraggiarlo dal farlo?

Le motivazioni sono tantissime. Sappiamo che delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza solo il 27 per cento denuncia le violenze subite. E sicuramente il timore di ciò a cui si va incontro incide sul dato, ma ad influire spesso è anche la paura che il padre dei propri figli sia condannato.

Dell’importanza del linguaggio giudiziario si è discusso molto anche per il caso Cecchettin, soprattutto rispetto all’aggravante della crudeltà che non è stata riconosciuta. In quel caso, forse, bisognava distinguere tra ciò che intendiamo comunemente per “crudeltà” e i parametri “tecnici” utilizzati nel diritto.

Capisco la fatica nel distinguere tra i due registri. Ma di nuovo, in quel caso, la scelta di alcune parole – come “l’inesperienza” nell’infliggere le coltellate – non è stata proprio felice. Bisognerebbe lavorare per rendere il linguaggio tecnico-giuridico intellegibile, perché le sentenze dovrebbero essere comprensibili. E se evitiamo i pregiudizi, evitiamo anche questi cortocircuiti e aumentiamo la fiducia nella giustizia.

A proposito di questo, il rischio è che si faccia strada l’idea di una giustizia “a portata di click”. Nel caso di Torino, addirittura con una petizione online che chiede la rimozione del giudice.

La petizione è una follia. Ma se tutte e tutti ci impegniamo ad evitare gli stereotipi, contribuiamo a una maggiore conoscenza e alimentiamo la fiducia nelle istituzioni per impedire certe assurdità.