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no vax
Non bastano neppure due o tre rondini a fare l'autunno della democrazia, ma se quei volatili sono un senatore (ex premier ed ex commissario europeo), un direttore di giornale irruento ma di solito avveduto e un'opinionista di certa fede democratica vuol dire che qualche nuvola si sta addensando. Parole come quelle pronunciate come se fossero normali da Mario Monti qualche sera fa a In Onda non se le è lasciate scappare dalle labbra nessuno neppure nella fase più sanguinosa del terrorismo, quando l'informazione era effettivamente arruolata e l'elmetto lo calzavano in moltissimi: «Ci deve essere un dosaggio dall'alto dell'informazione. Bisogna trovare modalità meno democratiche. Il governo istruito dalle autorità sanitarie dovrebbe tenere le redini di questo modello di comunicazione».
Augusto Minzolini, direttore del Giornale, e Beppe Severgnini, opinionista e vicedirettore del Corriere della Sera, non si sono spinti tanto in là. Hanno preferito la formula per certi versi anche più subdola dell'autocensura suggerita con toni decisamente ruvidi. Al virologo Andrea Crisanti, che dati alla mano sosteneva che non ci siano ancora dati scientifici sufficienti per assicurare l'innocuità del vaccino tra i 5 e i 12 anni, Severgnini ha quasi intimato di non lasciar correre la lingua in tv: «Certe cose si dicono ai convegni non in tv in prima serata». Minzolini aveva ammonito lo stesso Crisanti, un paio di settimane prima, per aver sostenuto che la crociata per convincere o costringere la minoranza non vaccinata a fare l'indesiderato passo ha poco senso. Reazione durissima: «Così si legittimano i No Vax». Sembra di capire che la logica sia drastica: non va detto in tv o scritto sui giornali nulla che possa andare a vantaggio della propaganda no vax e poco importa se siano chiacchiere deliranti in libertà o analisi di uno dei virologi più consultati dai media da un paio d'anni, consigliere del ministro della Sanità. Il paragone con gli anni del terrorismo non è né peregrino né esagerato. I media esercitarono allora una rigorosa autocensura, sconfinante nella disinformazione e nella diffusione di notizie false. Un esempio? I giornalisti si resero conto benissimo di cosa era successo dopo l'irruzione della Digos nella base Br di via Fracchia a Genova nel 1980. Decenni dopo Giorgio Bocca avrebbe ammesso che tutti capirono che si era trattato di una fucilazione nel sonno e tutti decisero di non scriverlo per non avvantaggiare le Br. Allo stesso modo quando il giornalista allora di Repubblica Pino Nicotri, arrestato il 7 aprile 1979 nella retata contro i leader di Autonomia, fu scarcerato trovò di fronte a Rebibbia una macchina che lo portò da Scalfari, ancora prima che avesse tempo di rientrare dopo mesi in casa. E il direttore gli chiese senza perifrasi di non scrivere niente contro la montatura di cui lui stesso era stato vittima. Soprattutto, l'intera orchestra mediatica, con pochissime stecche, scelse di far passare per pazzo Aldo Moro nei giorni della sua prigionia per vanificare i possibili effetti delle sue lettere dal "carcere del popolo".
Eppure nessuno, neppure in quella fase, teorizzò come ha fatto Mario Monti la sospensione della libertà d'informazione. Ci fu la proposta di reintrodurre la pena di morte, avanzata anche da figure di enorme spessore democratico come Ugo La Malfa e Leo Valiani, ma caddero nel vuoto ed era comunque diverso dal chiedere la sospensione della libertà di stampa. L'autocensura raggiunse livelli inauditi, ma almeno fu pudicamente negata e non sbandierata come un dovere civico. All'origine di questa ma anche di molte altre forzature a cui si sta dando libero corso c'è una logica precisa indicata proprio da Monti: «Abbiamo usato il termine “guerra” ma non una politica della comunicazione adatta alla guerra». Il punto critico in fondo è tutto qui. La politica e il giornalismo italiano adorano sia le iperboli che le metafore iperboliche. Spesso vengono prese per quello che valgono, qualche volta invece capita che distorcano la percezione delle cose in modo profondo. Bisognerebbe insomma decidersi a chiarire che la pandemia non è una guerra da nessun punto di vista. È una malattia e va affrontata con mezzi immensamente diversi d quelli della guerra. In una pandemia non ci sono quinte colonne, non c'è «Taci, il nemico ti ascolta» non ci sono "disertori", non esistono il "fronte interno" e "il nemico interno". Mischiare anche solo su piano della metafora due cose disomogenee e incompatibili come una crisi sanitaria e una guerra può fare solo enormi danni.