Sono trascorsi quattro anni da quando Ahmed Fdil, una persona di 64 anni divenuta senza tetto per aver perso il lavoro, è stata uccisa dal fuoco in una vecchia auto che era diventata la sua casa. Ad accendere l'incendio erano stati due adolescenti annoiati, uno di 13 e uno di 17 anni, che avevano lanciato accanto all'auto due pezzi di carta presi da una pizzeria da asporto e dati alle fiamme, "per scherzo", così avevano detto confessando il crimine, senza rendersi conto delle conseguenze atroci di quel terribile gesto. Il tredicenne non era allora imputabile. Per il diciassettenne non si sono aperte le porte del carcere perché il tribunale dei minori ha ritenuto, conformemente alla legge, che il profilo personale del reo e la sua giovanissima età consentissero ampie possibilità di reinserimento e di emenda e che il carcere non avrebbe giovato a quel giovane quanto un percorso serio e responsabile di riparazione condotto in una località protetta prestando assistenza ad anziani e disabili. Oggi il ragazzo ha concluso la prova decisa dai giudici e i servizi sociali danno conto di una concreta utilità del trattamento disposto che ha prodotto una piena maturazione e una fattiva presa di coscienza del crimine commesso. Ove il tribunale, a breve nuovamente interpellato, ravviserà, come appare prevedibile, il buon esito della c.d. "messa alla prova", l'autore di quel gesto indicibile sarà completamente libero. Comprensibili tutti i sentimenti di disagio e di sdegno accesi da una condotta che in sé palesa un disadattamento intimo e profondo, indifferenza sprezzante verso la condizione di solitudine e di miseria dignitosa e composta di un clochard, disprezzo della vita. Comprensibili ed empaticamente del tutto condivisibili e, tuttavia, c'è una ragione superiore che deve governare l'agire dello Stato quale tutore della sicurezza sociale e garante di un concetto più alto, esule dalle spinte emozionali, di Giustizia: l'utilità sociale, il risanamento di uno strappo con una visione lungimirante di prospettiva. E allora lo Stato dovrà tenere conto delle necessarie diversificazioni richieste dalla particolare fragilità dei minori che commettono reati, e dalla opportunità di rispondere alle condotte criminose con strumenti che traducano la tensione punitiva in aspirazione educativa e di recupero. In tale ottica, del rispetto di una particolare condizione di vulnerabilità, della necessità di educare la persona che sia incorsa da minorenne nel crimine e di determinarne la adesione a modelli sociali alternativi e positivi, di sanzionare con intelligenza prospettica ed indulgenza il minore il cui ricorso al crimine può essere stato determinato da condizionamenti esterni - sociali o familiari - cui non è stato in grado di contrapporre una resistenza matura e consapevole, il carcere deve essere considerato davvero come extrema ratio e rispondere a criteri di assoluta inevitabilità. Gli studi ed i progetti di legge elaborati negli ultimi anni, le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale - troppo spesso costretta a vestire i panni di un indolente legislatore - dalle direttive europee, dalle circolari ministeriali, tutti assecondano tale medesima intenzione: relegare la pena in carcere ad un ambito del tutto residuale e prediligere l'esecuzione penale "aperta" o extramoenia tesa alla integrazione sociale ed alla responsabilizzazione di soggetti ancora da educare, non da rieducare. E, allora, la pena detentiva appare del tutto inutile quando non dannosa mentre risponde ad un'ottica concreta di tutela della collettività e tende a prevenire la commissione di ulteriori reati la scelta di favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minore, la preparazione alla vita libera, l’integrazione. La tutela della società impone, insomma, la declinazione di un nuovo e più sensato e costruttivo concetto di sicurezza sociale. A fronte di una condotta orribile non è utile una pena orribile. La logica della protezione sociale pone a interrogarsi pragmaticamente su quale sia da parte dello Stato la condotta più feconda per sanare una ferita ormai inferta e a volte tragicamente irrimediabile. Non può non tornare in mente il motto fatto bandiera da Marco Pannella e divenuto icona della azione nonviolenta dell'associazione Nessuno Tocchi Caino: Spes contra Spem. Il posto di Caino è in società. Caino rappresenta l'umanità intera e la sua inclinazione all'errore e alla violenza ma la estrinsecazione della ferocia rappresentativa della stessa natura umana non deve essere repressa con pari ferocia. Caino deve avere un'altra opportunità. Abele è morto e su di lui si versano la pietà e il dolore di quanti lo hanno amato e di chiunque abbia subito la lacerazione di una morte cruenta, terribile, ingiustificabile. La punizione di Caino non la ripara, non sana le ferite, non recupera, non restituisce, non offre ristoro alla società se non quello del tutto umano del volere la sofferenza di chi ha determinato la nostra, del bisogno di vendetta, figlio anch'esso della stessa passione umana che conduce all'orrore della violenza. Un impulso intimamente del tutto condivisibile e, tuttavia, socialmente non utile, determinato dal bisogno di ferire non di sanare, costituzionalmente ammesso solo laddove serva a contenere, a tutelare la società dalla reiterazione del delitto. La punizione fine a sé stessa, quella che ognuno di noi vorrebbe feroce ed estrema a colpire chi ci ha ferito, chi ci ha privato di un affetto, chi ci ha procurato un dolore incancellabile non è ammessa se è socialmente inutile. Se quel giovane ha compreso, se ha tradotto quell'orrore in consapevolezza del valore della vita, se ha maturato empatia per chi soffre e rispetto dei suoi simili e di ogni condizione di vulnerabilità lo Stato di Diritto ha vinto senza procurare nuove ferite.