Ha pianto e si è anche disperato in questi anni, al ricordo di quella vita spezzata. Uno stupido e dannato scherzo iniziato «per noia», insieme all'amico13enne, costato però la vita ad Ahmed Fdil, clochard marocchino di 64 anni. Non la dimenticherà mai quella fredda e cupa serata del 13 dicembre del 2017, quando le fiamme si levarono alte nel piccolo centro di Santa Maria di Zevio, nel veronese, e che per colpa sua uccisero “il baffo”. Dopo l'omicidio, il processo è stato sospeso ed è stata disposta la messa in prova. L'allora 17enne, unico imputato per l'omicidio Ahmed, si è rimboccato le maniche ed ha lavorato sodo, su se stesso soprattutto, per non sprecare quell'unica possibilità di redenzione che il giudice gli ha concesso. Un giudice che ha deciso di interpretare alla lettera l’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua espulsione dalla società. Proprio come la stessa procura aveva richiesto. In questi ultimi quattro anni di «messa alla prova», ha lavorato al servizio della comunità, si è occupato anche dei disabili, li ha fatti sorridere qualche volta, si è affezionato a loro. Ha proseguito gli studi. Si è diplomato e adesso vorrebbe diventare uno chef. Ha poi seguito il percorso di psicoterapia così come disposto dal giudice, ha portato avanti la massa in prova e le relazioni dei servizi sociali su di lui sono state un fiume d'inchiostro positivo. I sensi di colpa lo accompagneranno per il resto della sua vita, ma adesso è un uomo libero. Oggi ha 21 anni, ma in quella comunità protetta che lo ha visto diventare uomo ci è entrato quando aveva appena 17 anni, pochi giorni dopo che per noia, con un fazzoletto «rubato» da una pizzeria, insieme ad un amico 13enne, diede fuoco alla vecchia Fiat Bravo dove Ahmed stava riposando. Ahmed - come dirà in processo uno dei periti - è stato arso vivo, morendo inghiottito dalle fiamme. Anche se, ancora, non è chiaro come un fazzoletto incendiato abbia potuto scatenare quel fuoco mortale. Quando nel 2017 per noia bullizzava il 64enne, l’allora 17enne non era di certo un ragazzo facile da gestire. Proveniente da uno stato dell'Europa orientale, non era riuscito ad integrarsi nella comunità veronese. Aveva stretto amicizia con un altro straniero, quel 13enne proveniente dal nord Africa con cui passava molte ore della giornata, compresa quella del 13 dicembre 2017. Un omicidio, due colpevoli e «nessun giorno di carcere per quei ragazzi», dice il nipote della vittima. Il 13enne, infatti, era troppo piccolo per essere imputabile. L'unico ad essere processato fu dunque il 17enne. Maria Teresa Rossi, giudice di quel difficile processo, tenendo conto della giovane età dell'imputato, ha deciso però di escludere la misura detentiva in carcere ed ha scelto di applicare la legge dell'ordinamento italiano che prevede l'affidamento in prova ai servizi sociali. Il tribunale per i minorenni di Venezia ha dunque puntato sul recupero del reo e, viste le positive relazioni dei servizi sociali, non ha fallito. «Chapeau a chi ha capito che poteva tentarci ed a chi dopo, assistenti sociali e comunità, ha lavorato con e sul ragazzo», dichiara al Dubbio il suo avvocato, Giovanni Bondardo, raccontando la storia di un processo minorile in cui «la messa alla prova ha funzionato». Grazie alla parte pubblica, «che ha lavorato – dice - bene e salvato un ragazzo. Gli assistenti sociali hanno fatto un buon lavoro. La struttura che lo ha avuto in affidamento ha lavorato molto bene. Il ragazzo si è impegnato e adesso è cambiato completamente - conclude l'avvocato Bondardo -. È un'altra persona». Non è stato facile per il ragazzo. Gli incontri con la madre venivano monitorati dagli assistenti sociali. Ogni respiro veniva rivelato, ogni passo valutato. Due volte alla settimana faceva volontariato in una struttura che si occupa di pet therapy. Niente cellulari, niente vita sociale fuori dalla comunità. E, dopo gli anni trascorsi dentro quella zona protetta, il ventunenne, mesi fa, ha potuto riabbracciare la madre, con la quale adesso vive, sempre nel veronese. Da uomo libero ha ripreso a sognare. Vuole una vita normale. Non dimentica e non dimenticherà mai quel che ha fatto. Nessun abitante di quel piccolo centro dell'hinterland veronese, d’altronde, ha mai dimenticato l'orribile morte toccata a Ahmed Fdil. Si era ben ambientato nella comunità veronese il 64enne marocchino, capelli brizzolati e quei baffoni neri per i quali si era aggiudicato il dolce soprannome de «il baffo». Una vita dignitosa la sua, fino alla perdita del lavoro che l'ha costretto a vivere in macchina. Era così diventato un senzatetto e aveva scelto la sua Fiat Bravo come nuova abitazione, non immaginando però che per la noia di due ragazzini quell'auto sarebbe divenuta la sua tomba. Per giorni, dopo quel 13 dicembre, procura e investigatori sono stati convinti che si trattasse di un incidente. Nell'immediatezza l'omicidio non era stato preso in considerazione. Santa Maria di Zevio, però, è un piccolo centro e, come in tutte le piccole comunità, la verità ha preso velocemente a passare di bocca in bocca, spingendo i carabinieri ad indagare. E a capire che Ahmed era benvoluto da tutti, tranne che da un gruppo di ragazzetti che in lui vedevano la valvola di sfogo della loro noia. La verità poi scoperta dai militari dell'Arma fu agghiacciante. «Abbiamo preso le salviette, poi siamo andati nel parcheggio dove c’era il baffo», raccontarono i due ragazzini ormai smascherati, per poi iniziare a rimpallare le accuse su chi avesse acceso e lanciato dentro la macchina quel fazzoletto infuocato. «L’ha lanciato lui», «no, lui». Fino ad ammettere: «Siamo andati lì perché non avevamo niente da fare», con l’intenzione, dissero, di fare uno scherzo a baffo. Uno scherzo che ha ucciso un uomo e cambiato per sempre le loro vite.