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Spesso (in particolare il 23 maggio e il 19 luglio, ricordando le stragi di Capaci e di via D’Amelio di 29 anni fa) parlando di antimafia si cita con legittimo orgoglio il maxi-processo: un capolavoro investigativo-giudiziario del pool di cui erano punta di diamante Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le condanne inflitte a boss, quadri intermedi e “soldati” hanno segnato la fine della sostanziale impunità di cui Cosa nostra aveva vergognosamente goduto da sempre. Per ostacolare lo svolgimento del maxi si erano scatenate campagne calunniose contro i magistrati e i pentiti, alle quali si intrecciavano gli imbrogli di Cosa nostra per aggiustare il processo. Ma le prove del maxi erano così solide da resistere a ogni tipo di manovra e il 30 gennaio 1992 la corte di cassazione confermò definitivamente, con le condanne, l’impianto d’accusa del pool.
L’esito inaspettato provocò nei vertici di Cosa nostra reazioni gravissime. Si aprì la stagione della vendetta: contro i potenti amici che avevano voltato le spalle all’organizzazione e contro i giudici Falcone e Borsellino che erano stati i principali protagonisti del maxi. Di qui gli attentati che causarono la morte dei due magistrati e di quanti erano con loro. Come era già avvenuto nel 1982 a seguito dell’omicidio del generale-prefetto Dalla Chiesa, anche dopo le stragi del 1992, superato un iniziale disorientamento (emblematiche le accorate parole “è tutto finito, non c’è più niente da fare”, pronunziate al funerale di Paolo Borsellino da Nino Caponnetto), si diffondono ovunque fra la gente sentimenti di rabbia e ribellione, che spingono in modo irresistibile verso una rinnovata azione di contrasto al sistema di potere mafioso. Si forma un fronte di vera e propria Resistenza che unisce e accomuna tutte le migliori forze della società e dello Stato. Senza distinzioni di “casacche”, praticamente all’unanimità, il Parlamento approva una norma (l'art. 41 bis Ordinamento penitenziario), che introduce un “regime differenziato” per i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata. Finalmente si prende atto di una situazione di permanente e diffusa illegalità determinata e sfruttata dai mafiosi, in forza della quale Cosa nostra riusciva a essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre. Con il 41 bis viene finalmente interrotto quel circuito perverso che rendeva il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio. Il 41 bis si innesta su un’altra novità legislativa, una legge del 1991 che favorisce ed incentiva i pentimenti, cioè le collaborazioni di giustizia, decisive in quanto password necessarie per entrare nei segreti altrimenti impenetrabili dell’organizzazione criminale. Dopo le stragi, inoltre, si perfeziona l'art. 4 bis OP che prevede l'ergastolo ostativo, cioè l'esclusione dei mafiosi non pentiti da ogni beneficio penitenziario. L'effetto incrociato delle condanne del maxi e delle novità legislative sarà dirompente. Se sfuma la facilità con cui in passato si potevano evitare le condanne , se il carcere diventa una cosa “seria” anche per i mafiosi condannati, ecco che si cercherà di ridurre questa tenaglia al minor danno, sfruttando gli spazi offerti dalla legge sui pentiti. Forze dell’ordine e magistratura, in questa nuova situazione, ritrovano efficienza ed entusiasmo. E i risultati non tardano ad arrivare. Non soltanto vengono progressivamente identificati, catturati e processati con severe condanne capi, gregari e killer di Cosa nostra, ma è possibile impostare una nuova strategia d’attacco al lato oscuro del pianeta mafia, iniziando a indagare anche le sue “relazioni esterne con alcuni settori inquinati della società civile e dello Stato. Così da affrontare (in presenza dei presupposti di legge) pure la cosiddetta “criminalità dei potenti”. Oggi questo "pacchetto antimafia" post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che - in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici - risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante. La tesi che il “pacchetto” è stato varato in una situazione di emergenza ora finita, per cui non serve e non si giustifica più, ricorda (con ogni rispetto dovuto, va sa sé, a chi la pensa diversamente) un po’ Alice nel paese delle meraviglie. Soprattutto in questa stagione di pandemia, che spinge la mafia (col suo dna di sciacallo/avvoltoio pronto a sfruttare le disgrazie altrui) all’assalto dell’economia in difficoltà per impadronirsi dei settori in crisi. Mentre è proprio in questo specifico contesto che va realisticamente inserito il problema dell’ergastolo ostativo.