Emanuele Crescenti è un procuratore della Repubblica. Capace di vivere la propria funzione con un non trascurabile grado di eroismo: la esercita a Palmi, nel territorio a più alta concentrazione ’ndranghetista del Paese. Ora, il procuratore Crescenti, come riferito dal Dubbio, ha duramente replicato, durante un convegno, a una vittima della in-giustizia antimafia come Pietro Cavallotti. Quindi ha apostrofato l’autore di un libro critico con il sistema antimafia come Alessandro Barbano. Riguardo al secondo, ha sostenuto che trarre da un caso singolo lo spunto per attaccare le misure di prevenzione è «mafioso». E “L’inganno”, il libro “scandalo” di Barbano sugli “usi e soprusi dei professionisti del bene”, sulla barbarie consumata a danno degli innocenti grazie alle norme della “prevenzione”, di quei casi è strapieno. La reazione di un magistrato di fronte a queste verità – processuali, cioè accertate nei limiti dell’umano – è dunque di scorgere un “collaborazionismo” in chi ne fa derivare una critica al codice Antimafia.

Vista la situazione, ci sembra giusto parlarne con te, Alessandro Barbano. A partire però da un altro fatto, concomitante col resoconto del conflitto dialettico fra l’avvocatura e il procuratore Crescenti. Sempre ieri, su un giornale come il Manifesto, noto per i titoli dalla folgorante genialità, si dava notizia dell’elezione di Colosimo al vertice della commissione Antimafia con il seguente epitaffio: “Capaci di tutto”. Vi si coglie l’anatema contro chi sconfessa il dogma antimafia, e sceglie per la Bicamerale una persona “colpevole” di essersi fatta fotografare con un condannato per eversione. C’è pure l’assimilazione fra chi “osa” tanto e chi sta con la mafia stragista. C’è insomma la linea rossa, sottile o meno, che separa il bene, e i suoi “professionisti” appunto, dal male.

Sì, in quel titolo ci sono molte cose. Ci vedo la teoria del doppio Stato, il complottismo come religione civile, come autobiografia della Nazione. E naturalmente ci vedo la censura moralistica di chi si sente autorizzato a dare patenti di idoneità e presentabilità rispetto all’assunzione di ruoli istituzionali. E soprattutto, direi, c’è una logica di potere: della serie, “l’Antimafia è roba nostra”. Cioè, l’Antimafia, la sua struttura, i suoi organismi, appartengono a un campo ben determinato. Non possono essere appannaggio di altri che a quel campo sono estranei.

Ecco, ma qui siamo a una rivendicazione di inaccessibilità (per gli estranei) che rimanda alla mistica dell’antimafia. Ai suoi dogmi. E torniamo al procuratore Crescenti, che nel suo liquidare come “mafioso” il discorso critico sulle misure di prevenzione, sembra assumere la rigidità di chi preserva un dogma.

Se critichi, se denunci la barbarie delle misure di prevenzione, se spieghi quanto siano incompatibili con lo Stato di diritto, sei un nemico. Non hai diritto di parola. La narrazione dell’antimafia non è contendibile, quindi non esistono vittime dell’antimafia, e se esistono sono sostanzialmente mafiosi, e non dovrebbero essere invitate a un tavolo in cui si parla di mafia, riservato solo ai rispettabili. Il procuratore Crescenti non contesta nel merito chi critica l’antimafia, gli addebita anzi una mafiosità. Ma lo dice solo incidentalmente a chi è autore del libro…

Che sei tu…

…lo dice soprattutto agli avvocati, che si sono intestati il diritto, la pretesa, l’impudente arbitrio di mettere in discussione il codice Antimafia. E questo sinceramente mi fa paura.

Esattamente perché?

Perché a definire mafioso il discorso che segnala le aberrazioni delle misure antimafia non sono io, che ho solo le parole come strumento: lo fa un magistrato che ha nelle mani armi pervasive, consegnate negli ultimi quarant’anni dalla politica alla magistratura. Armi che producono effetti collaterali. Mi fa paura in quanto destinatario dell’avviso, se posso chiamarlo così, ma anche come cittadino, perché il procuratore Crescenti rappresenta l’azione penale nel Mezzogiorno d’Italia, cioè l’istituzione che incarna la forza repressiva dello Stato. Il procuratore è anche un docente della Scuola superiore della magistratura: se trasferisce un simile approccio ai nuovi pm e ai nuovi giudici, c’è da temere che il dogmatismo dell’antimafia sia destinato a irrigidirsi anziché ad evolvere.

Crescenti ha reagito con quelle frasi sulla “mafiosità” alle dure critiche sulle misure di prevenzione, ma ha anche razionalmente riconosciuto l’urgenza dei correttivi, li ha elencati. È come se la prima parte della replica riflettesse anche una sorpresa, uno spiazzamento nel verificare che la critica alle misure antimafia è assai più strutturata di quanto si possa immaginare.

C’è sicuramente la sorpresa di cui parli. Ma a me sembra vi sia anche la difesa di un potere immane, connesso all’esercizio delle prerogative attribuite dal codice Antimafia alla magistratura. Mi spiego. Le norme su sequestri, confische e interdittive consentono di infliggere delle pene, al di là di come la Corte costituzionale ha qualificato, con un artificio sofistico, tali misure. Il codice Antimafia cioè consente di somministrare provvedimenti afflittivi senza provare la colpevolezza di chi li subisce. È un potere immane, appunto: si può infliggere una pena a un innocente. Siamo oltre la meccanica tipica dei regimi che, se mai, falsificano le prove della colpevolezza: siamo al potere del sovrano nelle monarchie assolute, al potere di dare la morte a chi è non cittadino ma suddito. Ecco, se non si ha idea di che strumento di distruzione di massa sia il codice Antimafia, della possibilità di confiscare beni agli innocenti, a chi è assolto in un processo, ai terzi ignari che abbiano acquisito quei beni lecitamente, se non ci si rende conto di quanto sia assoluto questo potere, non si comprende la sorpresa di chi si trova dinanzi all’ipotesi anche remota che tutto questo sia messo in discussione. Quel potere, va ricordato, non esiste in nessuna democrazia d’Europa.

Eppure Crescenti si è anche detto d’accordo sulla necessità di correggere le misure di prevenzione con un «meccanismo probatorio serio», con una «interdipendenza» fra tali provvedimenti e il processo penale vero e proprio.

Mi chiedo: se tale disponibilità è concreta, perché nessuno ci ha mai pensato, in quarant’anni? Perché in questi anni, di fronte a ogni intervento sul codice Antimafia, a cominciare dalla riforma Orlando, proprio i magistrati hanno invece fatto pressione affinché questi poteri speciali fossero estesi ai reati contro la Pa, nonostante il parere contrario di tanti autorevolissimi giuristi? E perché, se la disponibilità a eliminare gli aspetti abnormi della legislazione antimafia è effettiva, quando poi si discute di riforme, la premessa è che “però, per i reati più gravi, non deve cambiare nulla”? Sediamoci domattina e stabiliamo che una misura di prevenzione non può essere adottata a fronte di una sentenza penale di assoluzione.

Se l’antimafia è un sistema dogmatico, la sua liturgia riflette alla perfezione il dogmatismo e l’intransigenza tipici dei fondamentalismi.

Ecco, siamo all’altro aspetto che considero decisivo: il metalinguaggio. Inquinato da una logica di polizia. È una forma di “fascismo inconsapevole”. Lo rappresenta perfettamente, secondo la logica che i giuristi definirebbero a contrariis, una sentenza illuminata con cui pochi giorni fa la Cassazione ha stabilito che il ricorso alle interdittive non può basarsi su una mera familiarità mafiosa del destinatario. È stato travolto l’automatismo per cui chi ha un nonno, uno zio o un padre mafioso debba rassegnarsi a subire l’interdittiva.

Anche il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ha adottato, persino in anticipo rispetto alla Suprema corte, tale orientamento.

Ecco, possiamo rallegrarcene, ma dobbiamo anche chiederci, da intellettuali, perché sia necessario affermare con una sentenza ciò che dovrebbe essere pacifico in uno Stato di diritto. Anche un bambino sa che non è giusto far pagare ai figli le colpe dei padri. Ma se le supreme giurisdizioni devono sancirlo con una sentenza è perché, per trent’anni, il procedimento di prevenzione ha risposto a una logica di polizia. E così è stato, a ben vedere, non solo per la prevenzione, ma anche per la giustizia sia cautelare sia ordinaria.

E tutto è lecito perché una retorica moralista e dogmatica ha impedito qualsiasi esercizio critico.

Un metalinguaggio divenuto, di fatto, in modo inavvertito, il racconto della Repubblica. Un linguaggio intuitivo: nei secoli, la civiltà ha modellato il diritto con una logica controintuitiva, cioè ha frapposto tra il fine e il mezzo dell’azione penale tutta una serie di paletti grazie ai quali la legge ha assecondato l’irripetibilità dei fatti umani, tutti l’uno diverso dall’altro.

A parità di indizi puoi trovare un colpevole come un innocente.

Esatto. Ma in questi ultimi quarant’anni si è affermata la logica contraria: un diritto intuitivo, reattivo, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Costruito su allusioni e suggestioni. Capace di informare lo stile dei giornali che scrivono e titolano “è stato assolto, ma secondo l’informativa della Dia, dieci anni prima era a cena con...”.

E così hanno liquidato Colosimo come “unfit”.

Lei ha spiegato di conoscere Ciavardini per aver sostenuto un’associazione impegnata nel reinserimento dei detenuti. Ma non poteva sfuggire a un altro assioma: l’irredimibilità del male. Sostenuto da chi con una mano brandisce la Costituzione e con l’altra finge di non sapere che, in base alla Costituzione, la pena deve tendere al recupero del condannato.