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Il giornalista Alessandro Barbano
È ancora difficile parlarsi. È ancora quasi impossibile discutere con serenità di misure di prevenzione, dello storture incistate nel codice Antimafia. Della barbarie che si realizza talvolta in virtù di quelle norme.
Lo dimostra il dibattito, peraltro di altissimo livello giuridico e straordinaria intensità emotiva, organizzato nello scorso fine settimana a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine degli avvocati di Patti, in Sicilia. Al centro della contesa, “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano, meritoriamente assurto a caso editoriale-giudiziario degli ultimi mesi, con la sua potente denuncia sugli “abusi” commessi dai “professionisti del bene”. La discussione è stata inserita nel più ampio programma della due giorni che l’avvocatura di Patti ha dedicato alle “Emergenze del sistema penale”.
Vi partecipano un moderatore emozionante nel suo racconto come il giornalista Nuccio Anselmo, un testimone, anzi una vittima degli abusi di cui parla Barbano, cioè Pietro Cavallotti, e un magistrato, il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti. Cavallotti non può che rievocare l’assurdità, la barbarie appunto delle vicende che hanno polverizzato le imprese della sua famiglia e vanificato il sudore di due generazioni: «Mio padre e i suoi fratelli hanno visto il loro procedimento di prevenzione concludersi con una confisca definitiva nonostante fosse definitiva anche l’assoluzione, nel processo penale vero e proprio, dall’accusa di 416 bis. Noi figli abbiamo visto aprire a nostro carico un ulteriore processo penale, con parallelo procedimento di prevenzione, per “trasferimento di esperienza lavorativa” da parte dei nostri genitori, siamo stati assolti e almeno noi abbiamo ottenuto, su nostra impugnazione, anche l’annullamento dei sequestri. Peccato che siamo passati direttamente dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, visto che il primo ha potuto tralasciare, in virtù della legge che glielo consente, il pagamento di fornitori e tasse, anche se si è ben guardato dal congelare i propri compensi, in tutto 700mila euro».
Da lì, l’inevitabile, lapidario giudizio: «Una misura di prevenzione che toglie il patrimonio agli assolti non è giustizia: è barbarie. Dobbiamo combattere la mafia senza distruggere le persone che con la mafia non c’entrano niente», ha concluso Cavallotti dopo la sintesi storiografica sul terrificante sistema di ingiustizie avallato dal codice Antimafia.
Ecco, così come è potente il racconto di Barbano, lo è anche una simile testimonianza “dal vivo”. Di fronte a tanta forza narrativa, Crescenti, che pure ha riconosciuto ed enumerato storture e possibili rimedi della prevenzione antimafia, si è difeso in modo particolarmente “ruvido”. Primo: «Non leggo libri di chi ha subito processi», avverte in riferimento a “L’inganno” che parla dello stesso Cavallotti e di altri casi analoghi, «così come non leggo un libro sulla malasanità scritto da chi è stato vittima di errore medico».
E già non è una mano tesa verso il dialogo. Poi: «Tra le Sezioni unite e lei, dottore Cavallotti, mi fido delle prime», replica a proposito del passaggio in cui l’imprenditore aveva ricordato la controversa pronuncia sull’assenza di incompatibilità per il magistrato chiamato a giudicare i ricorsi avverso le misure di prevenzione che lui stesso ha emesso. E va bene. Ma poi Crescenti ha decisamente alzato il tiro quando ha aggiunto «guai a chiedere di eliminare le misure di prevenzione, perché così si fa il gioco della mafia», e soprattutto quando ha detto che è «mafiosità» indicare come un problema dello Stato «l’aggressione condotta attraverso le misure di prevenzione».
Ora, è chiaro che la discussione si è surriscaldata. Accorato e impietoso, seppure impeccabile nelle argomentazioni, è stato pure il tono di Cavallotti. Eppure la mafiosità evocata dinanzi a chi è stato vittima innocente delle misure antimafia è insostenibile. Lo ha fatto notare, a Crescenti, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che non ha mancato di ricordare la «vergogna e la barbarie di amministratori giudiziari che non rispondono dei loro atti». Il procuratore di Palmi l’ha a propria volta condivisa. Ma poi ha ribadito che è «mafioso prendere spunto da un caso per aggredire il sistema».
Il discorso è che lo scarto fra l’enfasi con cui l’Antimafia — non Crescenti, al quale va riconosciuto di non negare la necessità, per esempio, di una «maggiore interdipendenza fra processo penale e misure di prevenzione» — ha sempre proclamato l’intangibilità di quel sistema, da una parte, e le ingiustizie che d’altra parte quel sistema può produrre, ecco, quello scarto provoca uno stridore così acuto che parlarsi diventa impossibile. E perciò, siamo dinanzi all’ennesima dimostrazione di quanto sia urgente rendere più coerenti con lo Stato di diritto le misure antimafia. Ne guadagnerebbe lo stesso spirito costruttivo di un confronto come quello dello scorso fine settimana.