Ascoltando gli interventi pronunciati ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti, ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a due idee diverse, non tanto di giustizia (non solo), ma di società futura. Cioè di modernità. Da una parte c’è una idea di modernità fondata sulla rigorosità delle regole e sull’aspirazione alla moralizzazione di una società corrotta.  Dall’altra l’idea di un uso delle regole come strumenti del progresso, e della legalità, e non come “divinità a se stanti”, e l’aspirazione a una società solidale, che fa della solidarietà – della difesa dei deboli - il suo scopo e il suo valore essenziale.

La prima idea è sostenuta da una parte consistente e prestigiosa della magistratura. La seconda idea è sostenuta dall’avvocatura. Sono idee conciliabili, in qualche modo complementari, o invece rappresentano due ipotesi di modernità del tutto divergenti e conflittuali tra loro?

Questa domanda dimostra innanzitutto una cosa che forse non è ancora del tutto chiara nell’opinione pubblica e nei mass media: che è impossibile discutere della giustizia e della sua amministrazione senza allargare l’orizzonte a questioni che riguardano la struttura dello stato, della società, e della stessa democrazia.

Io credo che stiamo parlando di due idee che tra loro sono lontane. E che sarebbe ipocrita considerarle semplicemente complementari. Non perché la “moralizzazione” e la “solidarietà” siano fattori “opposti” tra loro. E’ chiaro che non lo sono. Ma perché la scelta delle priorità è essenziale in un disegno ragionevole di riforma dello Stato. Immaginare, come immagina una parte della magistratura - sostenuta dalla maggioranza della intellettualità e anche della politica – che l’emergenza nella quale vive la nostra società sia la “fragilità” delle regole, la loro mollezza, e di conseguenza il basso grado di rigore e di efficientismo dello Stato, non è la stessa cosa che immaginare che il problema di fondo sia la costruzione di una società solidale, che affermi il Diritto e i diritti e soprattutto i diritti dei più deboli.

Se questo è chiaro, da qui in poi si può aprire la discussione. E cioè un dialogo nel quale ciascuno porti le proprie posizioni, le confronti con le posizioni di chi non è d’accordo, e si lavori per un compromesso e una composizione.

C’è una condizione, però, perché questo confronto possa avvenire: la pari dignità tra le due posizioni. Oggi non c’è. L’idea della “società etica” è assolutamente prevalente sull’idea della “società del diritto”. Per correggere questo squilibrio occorre che scendano in campo soggetti nuovi. La novità è che un soggetto nuovo sta scendendo in campo, e questo soggetto è l’avvocatura, la quale sembra finalmente disposta ad afra frontare la battaglia a viso aperto. Consapevole del ruolo che è chiamata a svolgere, e del peso che questo ruolo può avere non solo per stabilire il modello di “giustizia”, ma anche il modello di “società” e dunque il tipo di modernità al quale ci avviamo. L’avvocatura si presenta alla discussione, e alla battaglia culturale, convinta della sua idea di Stato democratico, e organizzata al suo interno. Gli stessi Ordini degli avvocati stanno compiendo un grandissimo sforzo per liberarsi di qualunque ipoteca corporativa, burocratica, e per affermare un proprio ruolo di difesa della funzione che l’avvocatura è chiamata a svolgere nella società.

Se la magistratura sarà capace di compiere la stessa operazione, è chiaro che la discussione diventerà molto più semplice. Non si tratta di chiedere alla magistratu- di rinunciare alle proprie convinzioni, alle passioni, alle suggestioni. Ma di liberarsi anche lei dal corporativismo, dalla difesa della propria casta, e di accettare di mettere in discussione la propria superiorità, di liberare il pluralismo delle idee che ci sono al suo interno, e di partecipare – alla pari con l’avvocatura e con altri soggetti – a un confronto aperto e libero, sulla riforma dello Stato e sulla difesa dello Stato di diritto. Un anno di guida davighiana, e molto aggressiva, dell’Anm, certo non ha aiutato. Però esistono dei segnali, anche molto forti ( che tra l’altro vengono dal Csm, dalla Cassazione, e, su un altro versante, dalla stessa Presidenza della Repubblica) che fanno capire che anche dentro la magistratura ci sono menti, pensieri e forze che hanno voglia di uscire dal fortino e di riaprire il dialogo.