L’incalzare della cronaca ha già sospinto tra le cose passate le tre decisioni di Ancona, di Bologna e di Genova, che hanno riguardato procedimenti penali, conclusisi in modo ritenuto troppo mite per gli imputati, uomini, e che vedevano vittime tre donne. Un processo era per stupro e gli altri due per omicidio. Nel primo la motivazione ha escluso lo stupro anche facendo riferimento all’aspetto fisico della vittima, negli altri due è stata inflitta una pena di 16 anni di reclusione in considerazione della “tempesta emotiva”, che avrebbe segnato la condizione dell’imputato al momento dell’omicidio.

Come purtroppo spesso accade in questo periodo, alla violenza verbale delle polemiche che si sono sviluppate ha fatto riscontro la estrema superficialità di molti interventi. Questi possono sostanzialmente essere ricondotti a due fondamentali e contrapposte linee di pensiero: la violenza sulle donne, retaggio di una cultura arcaica ed incivile, merita il massimo della punizione senza se e senza ma; anche nel caso di violenza sulle donne i fatti devono essere accertati con rigore e la pena va graduata in relazione alla gravità di quello specifico fatto.

Vi sono, peraltro, due temi che hanno fatto da cornice al dibattito, pur rimanendo sullo sfondo, e che meritano di essere considerati con maggiore attenzione.

Il primo riguarda il ruolo del Giudice nella società ed è stato sollevato da una magistrata, Paola Di Nicola. La quale, anche intervistata, ha sottolineato che ciò che il Giudice scrive in una sentenza acquista un valore assoluto, finendo con l’imporre una visione culturale e delineando un potere simbolico, attraverso la consacrazione di un assetto culturale, che rafforza gli stereotipi, rendendoli la regola pronunciata in nome dello stato.

Perciò le decisioni che ridimensionano la gravità della violenza sulle donne finiscono con il rafforzare quella cultura e quegli stereotipi, da cui nasce quella violenza. In questa prospettiva, dunque, il Giudice svolge, attraverso le sue decisioni, un ruolo di promozione culturale. Ruolo che, quindi, diventa determinante nel valutare le questioni su cui deve esercitare il proprio magistero. Si tratta, certamente, di un intervento che si segnala per la raffinatezza intellettuale che lo contraddistingue, ma che pone due problemi. Se il ruolo del giudice che viene ipotizzato sia compatibile con l’assetto costituzionale e con la figura di un giudice professionale. Quale sia la cultura, tra le tante, che il giudice avrebbe il potere ed il dovere di portare avanti e se la scelta, piuttosto, non spetti al legislatore. Alla difficoltà di dare a questi due interrogativi una risposta coerente con la tesi esposta, si deve aggiungere una considerazione.

La scelta culturale affidata al giudice può mai risolversi in una dissolvenza delle specificità del caso concreto portato alla sua attenzione, nel momento in cui egli fosse chiamato ad enunciare una regola di carattere generale, dal valore simbolico e sempre ciecamente esemplare? E se vittima della violenza nella coppia fosse un uomo con un passato di prevaricazione? Si tratta di dubbi che non possono non riguardare anche una tale posizione rispetto ai processi che hanno ad oggetto la violenza sulle donne. Il secondo argomento che va considerato è il rapporto tra politically correct ed autonomia ed indipendenza della magistratura. Le tre decisioni menzionate hanno scatenato una esecrazione collettiva dei giudici che le hanno emesse, ben più pesante da sostenere delle accuse che talune parti politiche hanno talvolta mosso alle iniziative della magistratura.

La diffusa esecrazione è stata tale da togliere ogni sorpresa al fatto che: il ministro di grazia e giustizia abbia disposto l’invio degli ispettori presso uno degli uffici giudiziari interessati (per fare cosa? acquisire la motivazione?); il procuratore generale presso la Corte di Cassazione abbia espresso valutazioni di carattere disciplinare in ordine alla motivazione delle decisioni; il presidente del consiglio abbia censurato le decisioni in modo duro e semplicistico. Di regola, quando le critiche alla decisione di un giudice sconfinano nella aggressione sul piano morale, la magistratura associata ed il Csm reagiscono in modo compatto a tutela della autonomia ed indipendenza della magistratura. In questo caso solo sporadici interventi. Il politically correct è il limite alla autonomia ed indipendenza dei giudici italiani?