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«Finalmente posso fare i conti con la morte di mio fratello». Marzia Corini, medico anestesista, ha appena incassato la seconda assoluzione in appello. Per i giudici non ha ucciso suo fratello, “avvocato dei vip” e malato terminale di cancro, ucciso, secondo l’accusa, con un’iniezione letale di Midazolam.
La sua condanna a 15 anni di reclusione, stabilita dal Tribunale di La Spezia, era stata ribaltata in appello, quando i giudici si erano convinti che «quel dosaggio di sedativo non poteva uccidere» e che «Marzia è stata ineccepibile come familiare e medico». Una convinzione talmente profonda da spingere i giudici popolari a stringerle le mani, con gli occhi pieni di lacrime, dopo la pronuncia della sentenza, «come a scusarsi per ciò che avevo passato». Perché Marco - questo stabilì la sentenza - morì per la sua malattia, ormai irreversibile, e la sorella Marzia si limitò a fare ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro medico: evitargli il dolore profondo di quel suo viaggio verso la fine. La Cassazione ha però annullato quella condanna, chiedendo una motivazione rafforzata, in grado di resistere a qualsiasi obiezione giuridica. E di nuovo la Corte d’Appello ha pronunciato l’assoluzione di Corini, con i giudici popolari, ancora una volta, in lacrime per una storia che sarebbe dovuta rimanere tra le mura di una casa.
«Non so ancora come sto», dice Corini al Dubbio. «La notizia non è ancora arrivata alla corteccia cerebrale, forse. Ma ora mi sveglio la mattina e non sento più quella montagna sul petto, anche se non ho ancora ben realizzato». Gli amici, intorno, sono più sereni. E per Corini è quello lo specchio da usare, per guardarsi dentro, per andare avanti. «Non so se tornerò mai la persona che ero», spiega. Suo fratello Marco, famoso avvocato di La Spezia, deceduto nel 2015 nella sua casa di Ameglia, per l’accusa sarebbe stato ucciso dalla sorella per due motivi: da un lato quello economico, che avrebbe portato a falsificare il testamento per intascare la corposa eredità, e dall’altro quello “pietoso”, per porre fine alle sue sofferenze.
E prova principe del processo era una telefonata, quando, in preda al dolore per la morte del fratello, Marzia si lasciò sfuggire una frase considerata una vera e propria confessione: «È stata colpa mia – disse ad un’amica –, se non l'avessi sedato non sarebbe morto quel giorno. Soffriva troppo, non reggevo più a vederlo soffrire». Per i giudici d’appello, però, non è andata così. E per Marzia, costretta a rivivere il lutto per nove lunghi anni, ora è arrivato il momento di fare i conti con la morte.
Corini ha passato 75 giorni ai domiciliari, nella casa in cui il fratello era morto. Settantacinque giorni di isolamento, «tanto da chiedere più volte ai miei avvocati di poter essere mandata in carcere». Una richiesta che può apparire assurda, forse, ma «la solitudine, in quel momento, mi faceva rimuginare in continuazione. L’accusa era infamante. E ho pensato tante volte, in quei 75 giorni, di suicidarmi. È stato un pensiero ricorrente. Non dormire, essere controllati dai carabinieri in piena notte, dover uscire e far vedere che si è a casa… Ci si trova improvvisamente proiettati in un mondo sconosciuto. Pensavo che in carcere, almeno, avrei avuto delle persone con cui parlare».
Ma a pesare è soprattutto il fatto di non poter urlare la propria innocenza, «sapere che la mia voce non aveva più nessun peso: mi ha dato un senso di frustrazione fortissimo». Una frustrazione amplificata dalla grancassa dei media, che si sono accaniti sulla sua vita in maniera inspiegabile, ai suoi occhi. «Ho sempre avuto un basso profilo, non ho mai ostentato, come invece faceva la mia famiglia. Se qualcuno mi chiedeva se fossi parente dell’avvocato Corini dicevo di no. Poi, improvvisamente, è apparsa la mia foto sui giornali: ero la sorella killer. Sono otto anni che mi chiedo il perché di questo accanimento», racconta ancora. Una questione di mercato, forse, una notizia buona di cui parlare per molto tempo. Anche se di mezzo c’è la vita di una persona. «Trovo pazzesco che si possa massacrare una persona prima ancora che venga giudicata», si ripete forse ingenuamente Corini. «Per le testate il processo era già finito nell'attimo in cui mi hanno indagata. È sempre stato “omicidio Corini”, mai “caso Corini”. E io sono sempre stata la sorella che lo ha ucciso. Niente si è detto di tutto quello che ho cercato di fare, anche se ormai era troppo tardi, per salvare mio fratello».
Marzia Corini, infatti, ha cercato cure sperimentali, contattato medici a New York e in Svizzera, il tutto tentando di trovare una soluzione per salvare la vita del fratello. Fatti certificati da decine di mail, di cui nessuno ha dato conto. «Ad ogni udienza - spiega - la storia veniva raccontata da capo, infinite volte. Io ero quella che l’aveva ucciso. E non potevo parlare, per non legittimare questa teoria e perché, comunque, stavo attenta ad ogni respiro. Mio fratello mi aveva sempre detto che la verità processuale non corrisponde, a volte, con quella fattuale. Ma non immaginavo che fosse così complicato».
Tante prove, spiega infatti, sono state considerate marginali. Soprattutto gli scambi tra Marzia e il fratello, molti di vicinanza, rispetto ai quali hanno prevalso quelli più polemici, quelli difficili. «Credo che ci siano dei ruoli precostituiti, in un processo. Ognuno deve portare avanti la propria teoria e ognuno guarda le cose attraverso un tubo. Si osserva il dettaglio anziché il quadro più grande. Ma non dovrebbe essere possibile», sottolinea.
Una giustizia malata, forse, ma per la quale bisogna sperare in una cura. «Tante volte ho pensato che difendersi è un lusso. Non tutti hanno la possibilità di avere una difesa dello spessore di quella che ho avuto io. Non tutti possono permettersi di stare mesi o anni in balia della giustizia. Un’accusa come questa ti rende un untore. Non ho più trovato lavoro, il mio ex primario voleva riprendermi all’ospedale di Pisa, ma non è stato possibile, perché nessuno voleva una persona che facesse pubblicità negativa. E mi sono dovuta reinventare. Mi sono rimessa a studiare una branca dell'anestesia che non era la mia e mi sono reinventata come medico del dolore. E poi si devono avere dei soldi. Se avessi avuto una famiglia, dei figli, se non avessi avuto la casa di mio fratello dove vivere, dove sarei finita?».
Servirebbe una terapia del dolore anche per la giustizia e per chi affronta un processo? «Sì, credo che serva alla fine anche un processo di riabilitazione interiore, perché non è così facile poi ritornare. Una persona attraversa l'inferno e non può uscire indenne, deve essere per forza bruciata da qualche parte». Una forma di guerra, che Corini conosce bene, come medico che ha prestato servizio al fronte, ma più strisciante, «perché questa non fa rumore, qui il nemico non ce l’hai davanti. Dobbiamo difenderci, a volte, dall'istituzione stessa, un ingranaggio che si inceppa e nel quale la tua vita rimane incastrata. E il mio errore, considerandomi io una persona per bene, è stato quello di ritenermi immune da qualunque forma di malagiustizia. Pensavo che non sarei mai incappata in problemi giudiziari e quindi non mi preoccupavo di come funzionasse. Invece ho scoperto un universo. Ma la giustizia non può essere un tiro di dadi, nella speranza che tutto vada per il meglio. L’imputato diventa una persona che non ha più voce, un pezzo di carne, sbattuto da un posto all’altro con tempi infiniti. Ho scoperto che è vero che la pena è nel processo. Ma non dovrebbe essere così».
Ma com’è stato possibile condannare Marzia Corini, tenerla appesa per nove anni? Per Vittorio Manes, difensore di Corini assieme all'avvocato Giacomo Frazzitta, «nella prima fase di questa complessa vicenda giudiziaria si è dato troppo rilievo ad una telefonata priva di riscontri nella realtà, sottostimando i dati clinici e le evidenze scientifiche che dimostrano, come riconosciuto dalle due assoluzioni, che la somministrazione di Midazolam a basso dosaggio, concertata con il medico palliativista che aveva in cura Marco Corini, non può aver avuto alcun concreto effetto sul decesso, che peraltro ha avuto delle modalità del tutto incompatibili con la morte farmacologicamente indotta, come appunto il respiro agonico protrattosi per più di mezz’ora - spiega al Dubbio -. Pur dovendo attendere le motivazioni, è ragionevole attendersi che la sentenza della Corte d’Assise di Appello di Milano, come già quella della Corte di Genova, abbiano dato il dovuto rilievo ai numerosi elementi di prova scientifici, che appunto comprovano un decorso di morte naturale, non di morte causata da farmaci. E penso, soprattutto, che i giudici di Appello abbiano avuto una straordinaria sensibilità e capacità di comprensione di una vicenda umana drammatica e dolorosa, dove Marzia Corini, come sorella e come medico, è stata sempre e solo guidata dalla finalità di alleviare le sofferenze del fratello nel momento del trapasso, quando la gravissima patologia tumorale aveva ormai prodotto effetti devastanti ed era nella sua fase terminale. C’è soddisfazione perché alla fine, in ben due occasioni i fatti e le prove sono emersi con nettezza. Ma tutto questo, è bene evidenziarlo - conclude -, non cancella nove interminabili anni di sofferenza processuale, e di condanna mediatica da cui Marzia Corini è stata travolta: e questo dovrebbe far molto riflettere chiunque abbia a cuore valori come la presunzione di innocenza, la durata ragionevole del processo, le garanzie della difesa, e più in generale la “civiltà del diritto”».