«Evidente violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa nel corso delle indagini preliminari», tale da rendere le prove - che pure non hanno raggiunto il grado di certezza - inutilizzabili, con conseguente «mancanza assoluta di prova della colpevolezza dell’imputato». Con queste parole la Corte d’Appello di Ancona ha assolto Leopoldo Wick, finito sui giornali con l’etichetta di “infermiere killer” e vittima - stando alla sentenza - di un errore giudiziario. In primo grado, l’infermiere - rimasto in carcere per due anni - era stato condannato all’ergastolo per la morte, tra il 2017 e il 2018, di sette pazienti di una Rsa di Offida, mediante indebita somministrazione di farmaci. Per la Corte d’Appello, però, il fatto non sussiste: nessuno, cioè, ha mai ucciso nessuno. I giudici hanno sostanzialmente accolto la tesi degli avvocati Francesco Voltattorni e Tommaso Pietropaolo, che avevano lamentato plurime violazioni dei diritti di Wick, a partire dal ruolo svolto dai medici necroscopi, che avevano effettuato gli accertamenti sui pazienti deceduti senza che la difesa fosse coinvolta. Secondo i giudici di primo grado, le prove erano utilizzabili in quanto avevano inquadrato l’attività svolta dai medici come «meramente amministrativa, effettuata nell’ambito dei doveri istituzionali dei medici necroscopi in quanto tali, sui quali incombe l’onere di denunciare la causa di morte e, in caso di possibili ipotesi di decessi dovuto a malattia diffusiva infettiva, di adottare particolari cautele». Una tesi non condivisa dai giudici d’appello, in primis perché tra i compiti dei medici necroscopi non rientra, da regolamento, «quello di procedere a prelievi ematici, campionamenti e men che meno analisi di propria iniziativa», anzi «imponendosi al medico necroscopo stesso, qualora abbia fondati sospetti che la morte possa essere conseguenza di un reato, la sospensione dell’esame e l’obbligo di mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria il cadavere senza assumere decisioni di sorta». Né, si legge in sentenza, «può condividersi l’assunto del primo giudice laddove, quasi per giustificare l’espletamento di una attività non rientrante tra i compiti istituzionali dei medici necroscopi, indica quale causale dell’incarico (...) l’ipotesi della diffusione di “malattie latti sensu infettive all’interno della detta residenza”», ipotesi da nessuno mai formulata e mai prospettata neppure dal pubblico ministero, stando alle stesse indagini.

Furono gli stessi giudici di primo grado, inoltre, ad ammettere che non si trattava di attività istituzionale, ma di attività svolta dietro incarico del pm, tant’è che gli stessi medici inviarono a dicembre 2018 - quindi ben prima della nomina ufficiale, avvenuta a febbraio 2019 - una relazione preliminare su quei decessi. «Già solo da queste considerazioni - scrivono i giudici d’appello - si ricava la evidente violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa nel corso delle indagini preliminari». Ma al netto di ciò, significativa è anche la genesi delle indagini, partite dalle dichiarazioni informali rese da una dipendente della Rsa di Offida, che aveva riferito ai carabinieri di un aumento del numero dei decessi e dei suoi sospetti su Wick, affermazioni poi formalizzate in un secondo momento. La procura ha sin da subito concentrato le indagini solo ed esclusivamente su Wick, «al quale pertanto avrebbe dovuto essere garantita la possibilità, assieme al suo difensore, di partecipare alla attività di indagine in corso, vieppiù perché costituita da attività di prelievi ematici ed accertamenti tossicologici potenzialmente decisivi». Decisi ancor di più per il fatto che i campioni prelevati allora, a causa della loro scorretta conservazione, sono risultati inutilizzabili nel corso dell’incidente probatorio, rendendo dunque il primo accertamento effettuato irripetibile.

«Il fatto, dunque, che siano state violate le disposizione del codice di procedura penale e le garanzie difensive previste dal Codice stesso per assicurare le fonti di prova e raccogliere elementi utili alle indagini, mettendone a parte il soggetto fortemente sospettato di condotte illecite anche gravi onde garantirgli l’esercizio delle facoltà di legge a lui riservate comporta inevitabilmente che i risultati delle analisi ottenuti sulla base dei prelievi ematici - unici e utilizzati poi per tutti gli accertamenti di qualsivoglia tipo eseguiti nel corso del procedimento e del processo - non possono assumere efficacia probatoria e non sono utilizzabili», scrivono i giudici, di fatto mettendo una pietra tombale sulla questione. Perché anche se fossero stati utilizzabili, gli accertamenti eseguiti non hanno superato il ragionevole dubbio: tutti i pazienti deceduti, infatti, «versavano in condizione di estrema fragilità a motivo delle plurime patologie da cui erano affetti» e «il decesso si configurava per tutti come evento ben possibile e non imprevedibile». E gli stessi periti «non hanno mai, pur nella valutazione anche dei dati derivanti dalle analisi ematiche (non utilizzabili), parlato in termini di certezza nell’indicare in una indebita somministrazione di farmaci, insulina o benzodiazipene, la causa della morte piuttosto che in una delle molteplici patologie da cui ciascuno era affetto, tutte gravi e con ripercussioni evidenti sulle funzioni vitali». Nessuna causa certa, dunque, «il che lascia trasparire la possibilità comunque di quei dubbi che contrastano con il principio secondo cui può pervenirsi ad una sicura affermazione di colpevolezza solo quando non residuino ragionevoli dubbi».