La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un sergente dell’Esercito, confermando la condanna per vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate. L’uomo era stato già giudicato colpevole dal Tribunale militare di Napoli nel 2023 e dalla Corte militare d’appello di Roma nel gennaio 2025, per alcuni post pubblicati su Facebook nel 2016 e nel 2017 contenenti frasi giudicate gravemente offensive verso lo Stato e il governo. Il militare aveva chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’articolo 81 del codice penale militare di pace, che non prevede l’autorizzazione a procedere del ministro della Giustizia, a differenza dell’articolo 290 del codice penale, relativo al reato comune di vilipendio.

Secondo la Cassazione, la doglianza è «manifestamente infondata». I giudici spiegano che «le affermazioni di disprezzo pronunciate contro lo Stato da chi è preposto alla sua tutela inducono a mettere in dubbio la lealtà e la fedeltà di tale soggetto», aggiungendo che «il diverso trattamento sanzionatorio tra le due fattispecie di reato non viola l’art. 3 Cost., perché non appare irragionevole, bensì fondato su una effettiva, maggiore gravità del reato militare rispetto al reato previsto dal codice penale comune».

Rigettata anche la tesi difensiva che qualificava i post come mera critica politica. Per la Suprema Corte, «anziché contenere una critica, anche aspra, veicolano un disprezzo radicale per il bersaglio scelto, e non una presa di distanza fornita di motivazioni politiche». Le espressioni usate – tra cui l’accostamento dello Stato alla mafia e l’uso di epiteti volgari – sono state considerate «offese grossolane e brutali, prive di correlazione con una critica obiettiva». Neppure il contesto dei social può giustificare quelle parole. Scrivono i giudici: «L’uso di termini gravemente offensivi non può essere ritenuto legittimo o comunque consentito, neppure tenendo conto del linguaggio più facilmente impiegato sui social network».

La Corte ha così escluso l’applicabilità della scriminante prevista dall’articolo 51 del codice penale, ritenendo evidente la «natura gratuitamente offensiva e spregiativa delle espressioni». Quanto all’elemento soggettivo del reato, la Cassazione ha chiarito che il dolo richiesto dall’articolo 81 c. p. m. p. è generico, e «consiste nella mera coscienza e volontà di indirizzare allo Stato e alle istituzioni repubblicane parole offensive e contenenti disprezzo». In questo senso, è irrilevante la dichiarata intenzione dell’imputato di criticare soltanto la classe politica e non le istituzioni, così come è irrilevante che i post siano stati pubblicati «da privato cittadino».

L’appartenenza alle Forze armate, sottolineano i giudici, «è permanente, così come il particolare dovere di lealtà e fedeltà che ad essa si accompagna». Il ricorso è stato quindi rigettato integralmente, con condanna del sergente al pagamento delle spese processuali. Una decisione che ribadisce un principio consolidato: la libertà di manifestazione del pensiero, pur costituzionalmente garantita, incontra un limite invalicabile quando si traduce in offese gratuite e in disprezzo verso lo Stato. Limite che, per chi indossa la divisa, è ancora più stringente.