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Ci sono voluti 42 anni per rovesciare lo schiamazzo dei giornalisti all’arresto di Enzo Tortora nella standing ovation della platea che ieri si è commossa di fronte alla parabola di un uomo innocente fustigato dalla giustizia. Nove lunghi minuti di applausi hanno già sancito il successo della nuova serie tv firmata da Marco Bellocchio, Portobello, sbarcata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con i primi due episodi. Un assaggio dell’incubo giudiziario che il Paese non ha mai voluto guardare negli occhi, dice il regista. Che racconta il dramma privato dell’uomo dentro la «cecità collettiva» di un’Italia «dapprima sgomenta e poi colpevolista».
Tortora ce l’aveva tutta davanti a sé, quell’Italia, incollata alle prime magie a colori dello schermo televisivo. Incantata dai lustrini e dai girotondi tra i quali sarebbe stato impossibile intuire il destino a venire del conduttore. Anche la serie – che sarà disponibile su Hbo Max dal 2026 - parte da lì. Dall’enorme successo che precede la caduta, dal Tortora istrione che di lì a poco avremmo ritrovato in manette, quel maledetto 17 giugno 1983. Quando il blitz all’Hotel Plaza di Roma e la passerella coi ceppi ai polsi davanti alla questura consegnano alla folla il corpo del “colpevole perfetto” in un arresto-show studiato a favore di telecamere.
Il primo atto dell’orrore giudiziario è compiuto. E il gorgo si rivela negli occhi di Fabrizio Gifuni, perfettamente calato nei panni del presentatore tv: lo sguardo gentile d’improvviso si fa torvo, pronto a sfidare i colleghi venuti a scrivere la sua rovina. Chi priva lodava il presentatore da 28milioni di spettatori si converte rapidamente, pronto a puntare il dito contro il “traditore” colpito dall’accusa infamante di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico.
Marco Bellocchio di quel passaggio è testimone, e con il vantaggio della storia lascia trapelare il presagio della disgrazia tra le pieghe della ribalta. «Tortora non mi era antipatico ma mi era estraneo» e quando fu arrestato, «mi stupì il suo stupore», spiega il regista. «Sebbene un caso come quello di Tortora sia unico e irripetibile – aggiunge -, credo che la possibilità di sbagliare esista ancora». La giustizia la fanno gli uomini, che sono fallibili. Anche se «resta il mistero della cecità di certi giudici oltre ogni umana immaginazione. E la perseveranza del loro errore». Un clamoroso errore, il manifesto del processo mediatico all’italiana, una vicenda in cui «l’opinione pubblica forcaiola ha avuto un ruolo importante – dice uno degli sceneggiatori, Stefano Bises -, Anche più importante rispetto al rapporto con la magistratura».
Sullo sfondo la società dei primi anni ’80, un’Italia che cambia faccia, dice Gifuni, «scavalcati i corpi insepolti di Pasolini e Moro». Il terremoto dell’Irpinia dà l’ultima scossa agli equilibri già fragili della Nuova Camorra Organizzata. Giovanni Pandico, uomo di fiducia del boss Raffaele Cutolo e spettatore di Portobello dalla sua cella, decide di pentirsi. La procura di Napoli intasca il nome di Tortora in copertina di inchiesta. E bisogna aspettare 3 anni, il 1986, per la sentenza di assoluzione in appello che ribalta la condanna a 10 anni in primo grado.
Il dramma privato di Tortora diventa pubblico, una battaglia per una giustizia giusta al fianco di Pannella. Fino a quando l’imputato eccellente, l’imputato “antipatico” a cui nessuno era disposto credere, si ammala di malagiustizia e ne se va tra le braccia della sua Francesca Scopelliti. La compagna di lotta e di vita a cui aveva scritto nei giorni bui del carcere, con quelle lettere che oggi sono fondamento e scintilla per nuovo racconto in formato episodi.