Il reato, se c’è, va cercato alla “frontiera”. Ecco l’ultimo colpo di scena nel procedimento scaturito dal caso di Massimiliano, morto in Svizzera tre anni fa ricorrendo al suicidio assistito: gli atti del processo a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, Felicetta Maltese e Chiara Lalli saranno trasferiti alla procura di Como, come ha stabilito oggi il Gup di Firenze. Che accogliendo in parte l’eccezione sollevata dalla procuratrice aggiunta Marilù Gattelli ha dichiarato l’incompetenza territoriale del tribunale toscano.

I tre sono indagati per aver accompagnato Massimiliano in Svizzera, una disobbedienza civile per la quale si erano autodenunciati a Firenze una volta rientrati in Italia. Ma sarebbe Como, secondo il Gup, l’ultima parte di territorio italiano dove si è compiuta l’azione di aiuto al suicidio, un reato previsto dall’articolo 580 del codice penale e punito con la reclusione da cinque a dodici anni di carcere. «Purtroppo ci saranno tempi più lunghi. I nostri tre assistiti da due anni e mezzo aspettano una decisione che ha una portata diretta sulle loro libertà e indiretta sulla libertà di persone nelle condizioni simili a quelle di Massimiliano che vorrebbero porre fine alle loro sofferenze in Italia. Solo oggi, dopo varie udienze, l’intervento della Corte costituzionale sul requisito del sostegno vitale e una imputazione coatta, la stessa procura che aveva incardinato la competenza su Firenze cambia idea e solleva la questione di incompetenze territoriale. Non possiamo che attenerci alla decisione del gup e attendere la fissazione della prossima udienza presso il tribunale di Como», commenta dopo l’udienza preliminare Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Coscioni e coordinatrice del collegio legale.

Tutto era cominciato nel 2022, quando Massimiliano si era rivolto a Cappato per portare a termine il suo proposito: affetto da sclerosi multipla, diagnosticata nel 2017, il 44enne toscano aveva deciso di morire. Ma ha dovuto farlo in una clinica in Svizzera, dove si è autosomministrato il farmaco letale, perché rispondeva soltanto a tre dei quattro requisiti stabiliti dalla Consulta per accedere al suicidio assistito in Italia: affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche per lui intollerabili, era pienamente capace di autodeterminarsi. Quasi completamente paralizzato, aveva bisogno di un’assistenza costante, ma non dipendeva da un “trattamento di sostegno vitale”, come prevede il quarto criterio sancito dalla sentenza 242 del 2019 sul caso Dj Fabo.

Almeno non secondo un’interpretazione ristretta del trattamento inteso come “macchinario”: ad estenderla ci ha pensato la Corte Costituzionale con la sentenza numero 135 del luglio 2024, secondo la quale un “sostegno vitale” è ogni procedura sanitaria da cui dipende la vita del malato. Comprese quelle applicate dai familiari o “caregivers” che assistono il paziente. Il chiarimento era arrivato a seguito dell’ordinanza di rimessione del Gip di Firenze, che aveva rigettato la richiesta di archiviazione della procura e sollevato questione di legittimità. Dopo la sentenza, la giudice per le indagini preliminari ha comunque ritenuto necessario il processo e ha disposto l’imputazione coatta.

Nel frattempo, con la sentenza n. 66 dello scorso maggio, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi per la seconda volta in meno di un anno sul requisito del trattamento di sostegno vitale. E ha ribadito che non è costituzionalmente illegittimo subordinare a tale requisito la non punibilità di chi aiuta il paziente a mettere in pratica il proprio proposito. Ma ha chiarito che il paziente non è tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter essere aiutato a morire.

«Con Felicetta Maltese e Chiara Lalli siamo dispiaciuti del fatto che si debba attendere ancora altro tempo. Dopo due anni e mezzo da quando abbiamo aiutato Massimiliano, speravamo fosse arrivato il momento in cui lo Stato italiano potesse esprimersi sul diritto di Massimiliano a ricevere quell’aiuto. Nel frattempo, c’è un Parlamento che di nuovo rinvia un’assunzione di responsabilità su questo tema», commenta Cappato. Che domani sarà in Corte di Cassazione a Roma con gli altri componenti dell’Associazione Coscioni per depositare una proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia.

La legge arriverà in Parlamento al raggiungimento delle 50mila firme necessarie e apre a tutte le scelte di fine vita sul modello di Olanda Belgio, Lussemburgo e Spagna. Un modo per uscire dall’impasse del Parlamento, dopo l’ennesima fumata nera nel Comitato ristretto del Senato sul fine vita. Ma anche un modo per mobilitare i cittadini sul tema, come pensa di fare anche Emmanuel Macron in Francia con un referendum. Un’altra chance, spiega la Coscioni, a dodici anni dal primo deposito di una proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia, che raccolse 67mila adesioni ma non fu mai discussa in Parlamento.