PHOTO
PALAZZO DELLA CONSULTA CORTE COSTITUZIONALE
La Corte Costituzionale ribadisce la linea sul cosiddetto “trattamento di sostegno vitale”, uno dei quattro requisiti necessari per accedere al suicidio assistito in Italia. Tale criterio resta, confermano i giudici, ma nella sua interpretazione “allargata” con la sentenza 135 del luglio 2024.
Seguendo la stessa logica di quella decisione, con la sentenza numero 66 depositata oggi, la Corte dichiara non fondate le varie questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio) sollevate dal Gip di Milano, al quale il pubblico ministero aveva chiesto di archiviare due procedimenti penali per aiuto al suicidio. Esattamente come aveva fatto a seguito dell’ordinanza di rimessione del Gip di Firenze sul caso di Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto nel 2022 in una clinica in Svizzera con l’aiuto dell’Associazione Coscioni.
Dunque, argomenta la Corte, non è costituzionalmente illegittimo subordinare al requisito del sostegno vitale la non punibilità di chi aiuta il paziente a mettere in pratica il proprio proposito. Ma non è necessario che il trattamento sia già in essere, né bisogna intenderlo in maniera restrittiva: un sostegno vitale non è soltanto un “macchinario”, ad esempio quello per la ventilazione, ma una procedura sanitaria da cui dipende la vita del malato. Nel dettaglio - spiegava la 135 - tra tali trattamenti bisogna includere «procedure quali, ad esempio, l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o “caregivers” che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».
Non è necessario che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire, ribadisce ora la Corte. Sempre che sussistano le altre tre condizioni previste dalla storica sentenza 242 della Corte sul caso Cappato/Dj Fabo: che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. La Corte, si spiega nel comunicato stampa, «ha ritenuto che non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente. Pur non essendo, in ipotesi, precluso al legislatore compiere scelte diverse, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato».
Proprio al Parlamento, a cui bisogna riconoscere maggiore discrezionalità nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, la Corte rivolge l’ennesimo invito ad occuparsi della materia. Sia assicurando l’attuazione dei requisiti già stabiliti, sia garantendo «adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte». Con una preoccupazione particolare rivolta all’accesso «universale ed equo» alle cure palliative, per le quali «vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata».