Giovanni Brusca è uscito definitivamente dal carcere già nel 2021. Le polemiche — fuori luogo da una parte, eccessivi elogi dall’altra — non mancarono nemmeno allora. Ora che sono caduti anche gli ultimi paletti e ha ottenuto la piena libertà, i commenti si rinnovano. Su tutti quello di Maria Falcone: «Come cittadina e come sorella, non posso nascondere il dolore e la profonda amarezza che questo momento inevitabilmente riapre. Ma come donna delle Istituzioni sento anche il dovere di affermare con forza che questa è la legge. Una legge, quella sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni».

Parliamo di Brusca, un pentito a metà — non l’unico, sia chiaro — che riporta al centro un nodo irrisolto: il pentitismo. Uno strumento indispensabile, voluto da Giovanni Falcone, ma che senza un vaglio scrupoloso rischia di mostrare il suo lato distorto. Utilizzato dalle procure quando fa comodo, ignorato quando le dichiarazioni cozzano con le ipotesi accusatorie: il caso Brusca lo dimostra bene. Come scrisse Massimo Bordin in uno dei suoi corsivi più illuminanti su Il Foglio, il contenzioso sulla sua libertà “si muove dunque non alla luce del diritto ma in un campo oscuro dove il rapporto fra magistrati e condannati non riesce a trovare regole certe e trasparenza”.

Il boss di San Giuseppe Jato, poi diventato collaboratore di giustizia e ora pienamente libero, attraverso il libro dello scorso anno “Uno così, Giovanni Brusca si racconta” di don Marcello Cozzi, edito da San Paolo, si dice consapevole di avere commesso una delle peggiori atrocità tra gli eccidi di mafia: l’uccisione e lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo.

Il bambino, per tutto il 1994, venne spostato in varie masserie ed edifici disabitati del Palermitano, del Trapanese e dell’Agrigentino. Venne appunto coinvolta anche la mafia agrigentina. Brusca, la sera del 20 maggio 1996, venne arrestato assieme al fratello Vincenzo in una villetta di Cannatello, ad Agrigento. Erano in compagnia di donne e alcuni bambini quando scattò l’operazione della Squadra Mobile di Palermo e del Servizio Centrale Operativo della Polizia.

Ma Brusca è anche colui che ha azionato il telecomando che provocò la strage di Capaci, anche se ancora oggi corre la leggenda del famoso “doppio cantiere”, ovvero che a premere il vero pulsante sarebbero stati soggetti dei servizi segreti deviati. Parliamo dello stesso Brusca che, attraverso il racconto del “papello”, dette l’occasione agli allora pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia di fare uno stralcio dell’inchiesta archiviata “Sistemi Criminali”, che dette l’avvio al teorema fallimentare Trattativa Stato-mafia. Dopo l’inevitabile archiviazione per mancanza di elementi probatori, il processo si avviò solo con l’ausilio di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito e oggi considerato dai giudici un pataccaro.

Ma è proprio Brusca a essere stato un “pentito a metà” a forza di compiacere i pm che lo gestivano. Agli esordi del processo trattativa si intravedeva già una gigantesca matrioska, contenitore di altri processi che a loro volta ne contenevano altri, tutti poi finiti con assoluzione. Ebbene, alle prime battute del processo trattativa si cominciavano a intravvedere le contraddizioni, incongruenze per unire i puntini. E uno dei pentiti che creava “problemi” all’impianto accusatorio era proprio Giovanni Brusca.

Dall’omicidio di Salvo Lima alla cattura di Bernardo Provenzano succedono un sacco di cose: ci sono le stragi, Tangentopoli, cambia lo scenario politico, cambia anche la mafia che sceglie la via della “sommersione” e, paradossalmente, malgrado i tanti pentiti, è proprio quest’ultimo il cambiamento meno chiaro. La scansione per periodi che già i primi testimoni avevano proposto, in particolare Brusca, finì per contraddire alcuni capisaldi alla base dell’ipotesi accusatoria. Per esempio, Brusca ha ribadito per l’ennesima volta che non ci sono stati mandanti esterni della strage di Capaci e che l’omicidio di Paolo Borsellino era programmato da tempo e non è dovuto al fatto che il giudice avesse scoperto la trama della “trattativa”.

Al processo Borsellino Ter, aveva affermato che l’accelerazione era dovuta alla questione mafia appalti. Poi ritratterà nel momento in cui i pm teorizzavano altre piste. Quanto ai rapporti tra mafia e politica, sono descritti sempre sulla base del sentito dire e a volte le date non tornano. Per esempio, si era letto nei titoli dei quotidiani che Brusca avesse assicurato che il famoso “papello” fosse giunto nelle mani dell’allora ministro Nicola Mancino, ma il pentito in realtà raccontò di averlo saputo da Totò Riina. Ma anche su quest’ultimo, leggendo i primi verbali di interrogatorio, prima parlava di due papelli, poi di uno, poi anche il contenuto variava. Un vero pastrocchio.

Il problema è che le contraddizioni hanno sempre accompagnato i racconti di Brusca. Interessante leggere le motivazioni del giudice Mario Fontana che assolse gli ex Ros Mario Mori e Mauro Obinu per il cosiddetto mancato arresto di Bernardo Provenzano. Fa confusione: colloca la trattativa dopo la strage di via D’Amelio, poi si ricorda di essersi confuso e dichiara che, no, era prima. «È perfino superfluo osservare che, nella ricostruzione di Brusca, emergono molte oscillazioni – scrisse il giudice Fontana – che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio (soprattutto temporali) da lui fornite».

Non lo aveva convinto affatto la giustificazione di Brusca sul tanto tempo trascorso, che metteva a dura prova la sua memoria e richiedeva una faticosa «rimeditazione della sequenza dei fatti». Anzi, non si poteva escludere una «possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie, determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza». Insomma, il giudice disse chiaramente che Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava. Non solo Fontana, ma anche la Gip Marina Petruzzella, che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione nella quale venne smontato il teorema Trattativa Stato-mafia, confermata in Cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni ricevute nel corso di interrogatori, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni mossegli durante i suoi esami».

Il problema non è Brusca, il quale non rappresenta un’eccezione, né tantomeno il pentitismo, strumento fondamentale per la lotta alla mafia. Ancora una volta bisogna ricorrere al pensiero di Falcone. Fu proprio lui, durante un convegno nazionale di diritto e procedura penale nel ’91, a parlare della necessità dei pentiti come importante strumento per la lotta alla mafia, specificando però che «ovviamente non costituiscono mezzo di prova unico e indispensabile». Sappiamo che Falcone temeva i falsi pentiti, che spacciano fandonie e notizie artefatte per ragioni personali o per depistare le indagini.

Un caso eclatante fu quello del pentito Giuseppe Pellegriti, che accusò indirettamente Giulio Andreotti come mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Subito Falcone capì che aveva mentito e lo mise sotto inchiesta per calunnia. Basterebbe leggere alcuni passaggi del libro “Cose di Cosa Nostra”. «A proposito di pentiti – scrive Giovanni Falcone –, sono convinto che il solo comportamento efficace ed equo nei loro confronti sia anzitutto di verificare con estrema cura l’esattezza delle loro rivelazioni, senza tuttavia sminuire sistematicamente quanto affermano. Conoscendo il modo di rapportarsi dell’uomo d’onore con i fatti, che si può riassumere in questa formula: “obbligo assoluto di dire la verità”, mi sono sempre espresso con i mafiosi che interrogavo e che affermavano di voler collaborare in modo crudo, distaccato, scettico e quindi sincero». E ancora: «Ho sempre tenuto a precisare all’inizio degli interrogatori: “Dica pure quello che le pare, ma si ricordi che questo interrogatorio sarà il suo calvario, perché cercherò in ogni modo di farla cadere in contraddizione”». Il problema reale è il mancato apprendimento della lezione di Falcone.