Sentenze imbevute di giudizi morali, commenti, sermoni. Giornalisti che tagliano, estrapolano e trasformano frasi in armi di opinione. E una giustizia che sempre più diventa vittima di parole che, come macigni, appesantiscono la verità. La storia di Lucia Regna, brutalmente picchiata dal suo ex marito, condannato per le lesioni, ma assolto dall’accusa di maltrattamenti, è stata messa in prima pagina per una sola frase: “L’uomo andava compreso”. Parole che, pur scritte dai giudici in un contesto ben preciso, sono state ritagliate, semplificate e presentate come la chiave di tutta la sentenza.

La frase, che sembra giustificare la violenza in nome di un dolore umano “comprensibile”, ha preso il sopravvento, relegando la vera essenza del caso in secondo piano. È questa l’ambiguità delle parole, che, a volte, sembrano illuminare l’animo umano, ma rischiano di distorcere la realtà. Il caso ci pone di fronte a una riflessione fondamentale sul diritto e sulla sua esposizione.

Da un lato, c’è il piano giuridico: il processo, il quale, in un sistema fondato sul principio del “ragionevole dubbio”, deve portare a una condanna solo se la colpevolezza è provata. Dall’altro, però, c’è la dimensione delle parole, il loro peso, che è tanto determinante quanto l’oggetto del giudizio stesso. Perché, come afferma Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, «il processo penale è una civiltà di parole».

È attraverso il linguaggio che la giustizia si dispiega, ma è anche il linguaggio che può tradire la giustizia stessa. I giudici della sentenza su Lucia Regna, infatti, pur avendo motivato l’assoluzione con la credibilità della testimonianza dell’imputato, utilizzano un linguaggio che sfiora la compassione: «La separazione, dopo un’unione durata molti anni, ebbe qualcosa di brutale». Perché lei non lo voleva più e per lasciarlo ha scelto di non affrontarlo faccia a faccia. Un’espressione che non è solo descrittiva, ma quasi empatica, come se il dolore della separazione dovesse mitigare o giustificare gli insulti e le violenze. Eppure, il problema non sta tanto nel riconoscere il dolore umano dell’uomo, quanto nel modo in cui tale comprensione viene trasposta nel linguaggio giuridico.

L’assoluzione non si basa sull’umanità dell’imputato, ma sulla percezione che la testimonianza della donna non fosse pienamente attendibile e che, da un punto di vista giuridico, non fossero presenti gli elementi per configurare il reato di maltrattamenti. Ma le parole dei giudici - e la semplificazione mediatica - possono aver distorto il messaggio: in un processo, non è la comprensione per l’imputato a dover prevalere, ma l’accertamento dei fatti. Perché la “comprensione”, se manipolabile e manipolata da chi inevitabilmente legge quella sentenza, rischia di svuotare di significato la gravità della violenza, qui pure accertata, relegando il dolore della vittima a un corollario del processo.

Un atteggiamento che la Cedu ha già contestato all’Italia: nel 2021, infatti, Strasburgo ha condannato l’Italia per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, ad un altro tipo di violenza, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. «La Corte - si leggeva nella sentenza dei giudici di Strasburgo - considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente».

Il caso di Torino evidenzia come il linguaggio possa alterare il senso stesso della giustizia. E non si tratta di un caso isolato: in una sentenza di assoluzione per una presunta molestia, delle giudici avevano espresso una valutazione “psicologica” della presunta vittima. «Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente».

Anche in questo caso parole inappropriate, dal momento che - come già chiarito dalla Cassazione - elementi come l’aspetto fisico della vittima sono «irrilevanti», in quanto «eccentrici» rispetto al tipo di reato. Ma a convincere le giudici della non colpevolezza dell’imputato è stato altro: le testimonianze delle colleghe della giovane che ha denunciato il suo superiore, che avrebbero sminuito i fatti, definendolo un «giocherellone». Insomma, anche in questo caso non ci sarebbero stati sufficienti elementi a sostegno dell’accusa. La procura, nel 2021, aveva raccolto la denuncia della donna, che dopo il primo «quanto mi arrapi» pronunciato dall’uomo si sarebbe vista costretta a subire palpeggiamenti su «fianchi, schiena e pancia» e, in altre occasioni, anche sul seno, quando il dirigente si sarebbe spinto fino a «leccarla e a morderle le orecchie», infilandole «la lingua in bocca».

Fatti confidati dalla donna alle colleghe, che però non hanno sostenuto la sua tesi. Innocente o colpevole che fosse quell’uomo, per le giudici determinante è stata l’assenza di prove. E in tale situazione, per il sistema penale italiano non è solo possibile, ma doveroso assolvere. Certo la cura del linguaggio sarebbe potuta essere migliore, come insegna un altro caso, poi conclusosi con il ribaltamento della sentenza di assoluzione, che aveva destato ugualmente scalpore e “provocato” un’ispezione ministeriale: la presunta vittima fu di fatto etichettata come «tutt’altro che femminile» e «piuttosto mascolina».

Le ragioni dell’assoluzione, poi ritenuta sbagliata, non erano quelle: per le giudici, la ragazza non era attendibile e ciò a prescindere dal proprio aspetto fisico. Ma quelle parole erano sbagliate. Lo erano anche per il difensore degli imputati, che definì pericolosa per lo stesso processo quella terminologia. Al punto, ipotizzò, di essere capaci, forse, di «condizionare » i giudici della Cassazione, che spianarono la strada per la condanna finale degli imputati. Per tutti i giornali, i ragazzi erano stati assolti perché lei era troppo brutta. Ma non era affatto vero.

Lo scivolamento linguistico è forse più frequente in casi relativi a presunte o reali violenze sessuali. Ma i provvedimenti giudiziari, spesso, sono infarciti da giudizi morali. Come nel caso dell’inchiesta sull’Urbanistica milanese, in cui la procura, aveva stigmatizzato l’avvocato Eugenio Bono, «enfatizza aspetti etici e utilizza espressioni connotate, come l’accusa di “crescente avidità”, per giustificare esigenze cautelari che non trovano riscontro in elementi concreti.

L’inchiesta appare più come un processo alla speculazione edilizia nella città di Milano, che un’azione giudiziaria basata su singole responsabilità accertate». Un giudizio confermato, nei giorni scorsi, anche dal Riesame. E di giudizi morali si trovava traccia anche nella sentenza di condanna, poi ribaltata, di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, nella quale il giudice di primo grado definiva il politico un «falso innocente». Un giudizio completamente ribaltato nei gradi successivi: la sua era una «economia della speranza». Etichette di senso opposto. Le parole, appunto, sono importanti.