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Almasri
La vicenda giudiziaria che ruota attorno al caso Almasri apre un fronte istituzionale inedito: per i giudici della Corte d’Appello di Roma, l’attuale disciplina che regola la cooperazione tra Italia e Corte penale internazionale rischia di violare i principi costituzionali. Una valutazione che potrebbe segnare un punto di svolta non solo per il procedimento in corso, ma per l’intero assetto dei rapporti tra il nostro Paese e la giurisdizione internazionale.
Il nodo dei giudici: «Stallo procedimentale e rischio di incostituzionalità»
Nell’ordinanza con cui la Quarta sezione penale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, i giudici — Flavio Monteleone, Francesco Neri e Aldo Morgigni — parlano senza esitazioni di un “vulnus” allo Statuto di Roma e all’indipendenza della magistratura.
Il problema nasce dal meccanismo che obbliga il procuratore generale ad attendere il parere del ministro della Giustizia prima di dare esecuzione a una richiesta della Cpi, anche quando si tratta di mandati di arresto o consegna. Se il ministro non trasmette formalmente la domanda internazionale, l’autorità giudiziaria italiana di fatto non può procedere.
Secondo la Corte, questo sistema attribuisce al Governo un potere discrezionale «insindacabile in sede processuale», tale da condizionare il giudice e impedirgli di adempiere agli obblighi internazionali. Una situazione che «inibisce l’attività giurisdizionale» e crea uno stallo mai verificatosi in precedenti richieste della stessa Corte penale internazionale.
La questione del caso concreto: la richiesta arrivata tramite Interpol
Il caso Almasri aggiunge un ulteriore elemento di complessità: la richiesta della Cpi è stata inoltrata direttamente alla magistratura italiana tramite Interpol, ma il ministro non l’ha formalmente trasmessa. Senza questo passaggio, i giudici non possono decidere sulla consegna né adottare misure cautelari nei confronti del prevenuto, che in caso di ingresso in Italia non sarebbe destinatario di alcun provvedimento.
Un “unicum”, lo definisce la Corte: negli altri casi di cooperazione internazionale, il Ministero aveva sempre inoltrato tempestivamente le richieste dell’organo dell’Aia.
Il vulnus all’indipendenza del giudice e la tutela delle vittime
I giudici sottolineano che l’assenza di rimedi procedurali è particolarmente grave considerando la natura dei reati trattati dalla Cpi, spesso legati a crimini di guerra e contro l’umanità e a migliaia di vittime. Un’inerzia ministeriale, dunque, impedirebbe all’Italia di onorare gli impegni assunti con la ratifica dello Statuto di Roma nel 1999, lasciando di fatto inapplicati obblighi internazionali che nessun altro Paese membro mette in discussione. La Corte d’Appello ritiene che la questione sia “rilevante e non manifestamente infondata”, e chiede alla Corte costituzionale di verificare se il potere di filtro riconosciuto al ministro della Giustizia sia compatibile con: il principio della soggezione del giudice alla legge, il principio di separazione dei poteri, gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, lo spirito e la lettera dello Statuto di Roma.
Una decisione della Consulta in senso demolitorio cambierebbe radicalmente l’assetto della cooperazione giudiziaria con la Corte penale internazionale, sottraendo all’Esecutivo un potere discrezionale decisivo e restituendolo alla magistratura.


