Se non parli, niente risarcimento, anche dopo cinque anni e mezzo di ingiusta detenzione. È questa, in buona sostanza, la tesi della procura generale di Milano, che si è opposta, assieme al ministero delle Finanze, al riconoscimento di 670mila euro di risarcimento chiesti dal 56enne Diego Barba per aver trascorso oltre 2mila giorni in carcere.

Una pena nella pena, dal momento che per 10 mesi Barba è rimasto dietro le sbarre nonostante fossero scaduti i termini. E a ciò bisogna aggiungere i 213 giorni ulteriori con l’obbligo di firma e divieto di ingresso a Desio dove abitava con la famiglia. L’accusa a suo carico era gravissima: Barba era finito in galera per l’omicidio di Paolo Vivacqua, il “Berlusconi di Ravanusa“, rottamaio siciliano trapiantato in Brianza, ucciso a Desio il 14 novembre 2011. Omicidio che Barba non ha ordinato, come stabilito dopo ben sette processi.

La lunga e complessa vicenda giudiziaria ebbe inizio il 2 dicembre 2015, quando la Corte d’Assise di Monza condannò Barba e Santino La Rocca a 23 anni di carcere, ritenendo quest’ultimo il tramite tra il mandante - Barba - e gli esecutori materiali del delitto, Antonino Giarrana e Antonino Radaelli, ai quali fu inflitta la pena dell’ergastolo.

La condanna venne confermata in appello e poi, dopo un annullamento con rinvio, di nuovo nell’appello bis. Ma la vicenda non era terminata: una volta tornata in Cassazione, infatti, il processo tornò indietro per un appello ter, che si concluse il 19 febbraio 2021 con l’assoluzione di Barba e La Rocca per non aver commesso il fatto. E dopo oltre dieci anni dai fatti e sei anni di processi, a mettere la parola fine ci ha pensato la Corte di Cassazione, che nel 2022 ha respinto come inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Milano, scongiurando un ulteriore processo.

I giudici di legittimità hanno rilevato numerose lacune e contraddizioni nella ricostruzione accusatoria, soprattutto, dal momento che il ruolo dei due era stato evinto tramite dichiarazioni de relato giudicate poco attendibili e contraddittorie, soprattutto perché mescolavano elementi di due diversi omicidi, mentre il presunto movente economico legato alla relazione tra Barba e l’ex moglie della vittima è stato ritenuto debole e privo di riscontri oggettivi. Insomma, gli elementi a loro carico erano troppo deboli, incerti o contraddittori, dal momento che le accuse si basavano su dichiarazioni indirette, intercettazioni ambigue e dati di traffico telefonico non univoci.

Ma tutto ciò per la procura generale non basta: uno degli argomenti usati per chiedere il rigetto è proprio il silenzio di Barba. «Ma le cose non sono andate esattamente così - spiega al Dubbio Gianluca Orlando, difensore di Barba insieme a Manuela Cacciuttolo -. Noi seguiamo la sua posizione sin dal primo momento, cioè dall’interrogatorio di garanzia. In quella fase lui diede subito delle indicazioni e successivamente venne sentito di nuovo, ma senza che fossero ancora disponibili le carte dell’indagine. Lui spiegò tutto, ma quell’interrogatorio fu ritenuto dalla procura come un tentativo di depistaggio.

A quel punto, strategicamente, decidemmo di non farlo più rispondere direttamente, ma solo rendendo dichiarazioni spontanee, praticamente in ogni udienza. Quindi direi che non si tratta affatto di “non collaborazione”». Era una strategia difensiva ben chiara. Ciononostante, sia per la procura generale sia per il ministero quel silenzio sarebbe un elemento negativo, sulla base di una giurisprudenza ormai ampiamente superata dalla Cassazione. Su un punto, però, sono d’accordo con la difesa: quei 10 mesi in carcere oltre i termini di custodia cautelare, riconosciuta alla difesa dopo aver presentato ricorso al Riesame. Il resto delle argomentazioni della procura generale, invece, convince poco Orlando.

La norma di riferimento in materia è l’articolo 314 del codice di procedura penale, che riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile — per insussistenza del fatto, per non averlo commesso, o perché non costituisce reato — qualora non abbia contribuito alla custodia cautelare con dolo o colpa grave. La ratio della disposizione è garantire tutela nei casi in cui una misura cautelare si riveli infondata. A modificare in modo rilevante l’interpretazione della norma è intervenuto il decreto Legislativo n. 188 dell’ 8 novembre 2021. In particolare, l’articolo 4, comma 1, lettera b), ha introdotto una specificazione: “L’esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione”. In sostanza, chi sceglie di non rispondere non perde per questo il diritto all’indennizzo.

Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20657 del 27 maggio 2022, destinata a costituire un punto di riferimento sul valore del silenzio difensivo nei procedimenti per ingiusta detenzione. I giudici di legittimità hanno chiarito che, per escludere il diritto alla riparazione, il dolo o la colpa grave devono emergere da comportamenti concreti che abbiano causato direttamente la restrizione della libertà personale.

In passato, la giurisprudenza — come testimoniato dalla sentenza n. 24439 del 2018 — aveva talvolta considerato la scelta di non rispondere come indice di colpa grave, soprattutto laddove un contributo chiarificatore dell’indagato avrebbe potuto modificare l’interpretazione degli elementi indiziari. Ma tale orientamento, osserva oggi la Cassazione, è superato. La riforma del 2021, infatti, recependo la direttiva Ue 2016/ 343 sulla presunzione d’innocenza, ha escluso che la scelta difensiva di non rispondere possa avere rilievo ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione. Un concetto che l’impugnazione della procura generale di Milano, però, non sembra tenere in considerazione.

La palla, ora, torna ai giudici della quinta sezione penale della Corte di Appello di Milano, dove gli avvocati di Barba hanno ribadito le ragioni della richiesta di risarcimento. Il tutto mentre anche La Rocca ha ottenuto un risarcimento danni per ingiusta detenzione, pari a 241mila euro, la metà del massimo previsto per legge. In quel procedimento, il ministero non si è costituito, così come la procura generale ha scelto di non proporre impugnazione. La Rocca ha impugnato la decisione per chiedere di più. E ora anche Barba attende risposte.