Con Enrico Costa, il Dubbio può dire di intrattenere uno scambio non “burocratico”: la pensiamo allo stesso modo. Il responsabile Giustizia di Azione lo sa. Perciò, con la stessa franchezza con cui gli confessiamo lo stupore per la proposta del carcere ai giornalisti, lui ci replica: «Ma voi non siete gli stessi che vi battete per il riserbo sulle indagini, per una tutela del segreto istruttorio in funzione della presunzione d’innocenza? E se il segreto viene violato, il giornalista ne è consapevole e pubblica comunque l’informazione illecitamente trapelata dalla Procura, che fate? Dite che a quel punto va tutto bene?».

L’obiezione è pertinente. Ma capovolgiamo la domanda e la rilanciamo al deputato che, al pari dei colleghi Maria Elena Boschi di Iv e Tommaso Calderone di FI, ha presentato emendamenti al ddl cybersicurezza per punire col carcere chiunque diffonda notizie nonostante sia consapevole che sono frutto di un reato: non credi, caro Costa, di essere in contraddizione con anni di battaglie, queste sì comuni, contro il perenne ricorso alle manette? «Voi sottovalutate una cosa: la norma di cui parliamo è esattamente la stessa prevista per la ricettazione. Se io traggo profitto dal frutto di un reato, al paese mio è ricettazione, e posso prendere 8 anni. Lo spiega bene Calderone a proposito del suo emendamento, e infatti leui mantiene gli 8 anni di pena massima anche per i casi in cui la ricettazione consista nel diffondere consapevolmente una notizia frutto di illecito. Io mi fermo a 3 anni di carcere. Ma non è che il ragionamento di Calderone sia campato per aria».

Un momento: premesso che il Dubbio non mancherà di chiedere al deputato di FI perché ha ipotizzato una sanzione così abnorme per un reato che sarebbe contestato ai giornalisti, come si fa a ignorare che parliamo di una funzione, di una professione centrale per la democrazia, e che colpirla in modo tanto severo non può che rimandare a paradigmi autoritari? «Premesso che la parola giornalista negli emendamenti in questione non compare, e cioè che a diffondere una notizia nonostante se ne conosca la provenienza criminale può essere anche un avvocato o un ingegnere, mi spiegate voi del Dubbio perché deve esserci una professione che non risponde mai di quel che fa? Mi dite perché il frutto di un reato può essere utilizzato senza rispondere di ricettazione solo perché lo si pubblica su un quotidiano?».

La risposta è sempre la stessa: perché da anni ci battiamo, insieme, contro l’uso sistematico e ossessivo delle manette, e perché la stampa è un presidio cruciale, in una democrazia. «C’è una sentenza della Cassazione che dimostra quanto sia indispensabile un intervento regolativo sulla materia di cui parliamo. Nel 2019 alcuni giornalisti furono condannati in appello per aver pubblicato intercettazioni abusive contenute in un cd che avevano acquistato: per i giudici di secondo grado si trattava di ricettazione, la Cassazione disse che era diritto di cronaca. Cioè: tu compri un cd che è corpo del reato, ne ricavi degli articoli e non ne devi rispondere? E se mi entrano in casa, mi rubano l’estratto conto, lo vendono a un giornalista e lui, consapevole che ha ricevuto quel documento da ladri introdottisi in casa mia, lo pubblica, davvero pensi che non si tratti di un reato, che 3 anni di carcere siano una pena spropositata?».

Siamo al collo di bottiglia: com’è possibile reinfilare dalla finestra il carcere per i giornalisti che si è cercato faticosamente di far uscire dalla porta della diffamazione? «La diffamazione è un’altra cosa. È un reato d’opinione. Ed è dal 2018 che mi batto per eliminare il carcere dalle norme sulla diffamazione. Si può pensare casomai a sanzioni pecuniarie per l’editore, che poi valuterà se alla decima diffamazione non sia il caso di chiedere al proprio cronista di andarci un po’ più piano. Ma intanto, se non siamo nel campo delle opinioni, e qualcuno scrive che Costa è un pedofilo, mi attribuisce cioè un fatto determinato, e falso, già è diverso».

Ma la soluzione, per i casi davvero ricorrenti, cioè per la pubblicazione di notizie coperte da segreto, non dovrebbe riguardare il pubblico ufficiale che viola il segreto d’indagine, in modo che ne risponda innanzitutto sul piano disciplinare? Non sarebbe più giusto prevedere l’illecito disciplinare per il pm che, di fronte al disvelamento illecito di una propria inchiesta, non apre un fascicolo per capire come quelle notizie sono uscite dalla Procura? «E se si scopre che è stato il cancelliere che si fa? Si punisce lui ma non il giornalista che pubblica le notizie?».

E sì, e in ogni caso c’è una distanza notevole tra chi diffonde consapevolmente notizie frutto di reati violenti, come le informazioni estorte sotto tortura di cui ha parlato il sottosegretario Mantovano, e chi approfitta di illeciti di ben più bassa offensività. «Ma voi la violazione del segreto la volete combattere?». Sì, certo, ma ci eviteremmo volentieri le manette. Ma niente: ci sta che ci si trovi su fronti opposti in una battaglia, dopo averne condivise tante.