Il carcere per i giornalisti esce dalla porta e rientra dalla finestra. Sono stati presentati due emendamenti – uno a firma Enrico Costa (Azione), sottoscritto anche da Maria Elena Boschi (Iv), e uno a firma Tommaso Calderone (Forza Italia), i partiti più garantisti del Parlamento – che, partendo dal presunto scandalo dossieraggi (sebbene il termine sia utilizzato impropriamente) puntano a spezzare il passaggio di informazioni tra fonti e giornalisti, per punire chiunque pubblichi notizie raccolte illecitamente.

Tali proposte prendono le mosse dalle vicende che coinvolgono Pasquale Striano, il finanziere fino a poco tempo fa in servizio alla Dna finito al centro dell’inchiesta di Perugia per i presunti accessi abusivi al registro delle Segnalazioni di operazioni sospette (Sos), segnalazioni poi inoltrate a diversi giornalisti. Una vicenda, quella giudiziaria, nata a seguito dell’esposto del ministro della Difesa Guido Crosetto, che, dopo la pubblicazione su Domani di notizie (vere) relativamente ai suoi rapporti con Leonardo, presentò un esposto per chiedere alla Procura di Roma di indagare sull’accesso a questi dati riservati, di fatto chiedendo di conoscere le fonti dei giornalisti. Da qui l’apertura di un fascicolo che conta 15 indagati, tra i quali Striano, il sostituto procuratore della Dna Antonio Laudati e diversi cronisti, tutti a rischio carcere per rivelazione di segreto d’ufficio.

La vicenda, per diverse settimane sulle prime pagine di tutti i giornali, ha conferito carattere di urgenza al ddl Cybersicurezza, che era stato approvato dal Consiglio dei ministri a gennaio, in tempi non sospetti. Il provvedimento è ora all’esame delle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, dove Costa e Calderone hanno proposto quanto Fratelli d’Italia, dopo la levata di scudi di giornalisti e partiti d’opposizione, aveva ritirato: solo 10 giorni fa, infatti, il senatore meloniano Gianni Berrino aveva depositato emendamenti sul carcere ai giornalisti nell’ambito dell’esame del ddl Diffamazione, emendamenti che entravano in contrasto con la linea della Consulta e della Cedu. L’idea aveva fatto storcere il naso anche a Giulia Bongiorno della Lega e a Pierantonio Zanettin di Forza Italia – secondo i quali l’obiettivo principale è restituire al diffamato «il proprio buon nome e la propria onorabilità», cosa per la quale basta la rettifica, «non è necessario il carcere» – ed era stata poi abbandonata dallo stesso Berrino.

Ora, però, ci riprovano Costa e Calderone. Il primo introducendo l’articolo 615-sexies (“Diffusione di informazioni di provenienza illecita”), in base al quale, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, e fuori dai casi di concorso nel reato, chiunque, conoscendone la provenienza illecita, diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, in tutto o in parte le informazioni acquisite mediante le condotte indicate nella presente sezione è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Calderone – appoggiato da altri due deputati di FI, Annarita Patriarca e Paolo Emilio Russo – riconduce la fattispecie ai reati più gravi di ricettazione, riciclaggio e autoriciclaggio di dati o programmi informatici, con l’introduzione dell’articolo 648-ter.2, che estende le disposizioni degli articoli 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 ai “dati o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico sottratti illecitamente e alla loro utilizzazione, riproduzione, diffusione o divulgazione con qualsiasi mezzo”. Significa pene fino a 6-8 anni.

Dunque, se il giornalista è consapevole della provenienza illecita dell’informazione rischierebbe di finire in carcere. Ciò nonostante le sentenze Cedu vadano in direzione opposta, tutelando le fonti giornalistiche: nella sentenza del 6 ottobre 2020 (causa Jecker c. Svizzera, ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti umani ha infatti operato un’ulteriore stretta a protezione della confidenzialità delle fonti, stabilendo che, in via generale, l’articolo 10 della Convenzione europea, che assicura la libertà di espressione e, dunque, la libertà di stampa, include la protezione del giornalista anche in relazione alla tutela della segretezza delle fonti, che rivelano notizie con garanzia dell’anonimato. Gli Stati, dunque, non possono obbligare un giornalista a svelare la fonte, anche nei casi in cui ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato. E, dunque, ciò “salverebbe” i giornalisti anche nel caso in cui fossero consapevoli che l’informazione è arrivata loro in maniera illegale.

Alla presentazione della Relazione dell’Acl, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, autore del ddl, ha spiegato che «il governo deve ancora riservare una riflessione su questi emendamenti», e che sul tema «serve una riflessione generale: la tutela delle fonti fa parte della deontologia, ma non può avvenire senza limiti».

A propria volta il vertice della commissione Giustizia di Montecitorio Ciro Machio, anche lui di FdI, ha chiarito: «Le presidenze delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia hanno parzialmente accolto i ricorsi e ammesso alcuni emendamenti dell’opposizione, tra cui quelli di Azione su intercettazioni, pubblicazione di informazioni e trojan. Sono stati riammessi, tecnicamente, ma è noto a tutti che ammettere all’esame non significa né accogliere né approvare nel merito». E, ha aggiunto Maschio, «non mi risulta la maggioranza abbia deciso se approvarli».

Ma intanto la Federazione nazionale della stampa è sul piede di guerra. «È ammirevole la pervicacia con cui una certa parte del Parlamento italiano vuole conquistarsi un posto nell’Olimpo di Orban», dichiara Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi. A suo giudizio, «ai giornalisti italiani si chiede non solo di verificare se una notizia è vera, come prevede la legge ordinistica, ma di vestire anche i panni degli investigatori per accertarsi che a monte non ci sia un reato. Evidentemente alcuni parlamentari, non solo di maggioranza, non riescono a rassegnarsi al fatto che il carcere per i cronisti debba uscire dalla legislazione italiana», così come stabilito dalla Corte costituzionale. «È lampante il tentativo di irrigidire le leggi prima che il Media Freedom Act dispieghi i suoi effetti anche nel nostro Paese. Un motivo in più per chiedere all’Europa di vigilare sull'attacco che l'informazione italiana sta subendo».