Era già successo nel primo processo di appello per la morte di Marco Vannini, quando la Corte derubricò da omicidio volontario a colpa cosciente il reato con cui condannare Antonio Ciontoli; è ricapitato quando la Cassazione, nel caso della strage di Viareggio, dichiarò la prescrizione di alcuni reati; si è verificato nuovamente qualche mese fa quando la Corte di Assise di Cassino ha assolto la famiglia Mottola per l’omicidio di Serena Mollicone. E ora ha preso forma nel Tribunale di Pescara, dopo la lettura della sentenza del processo Rigopiano.

Il gup Gianluca Sarandrea assolve 25 dei 30 imputati e commina altre cinque lievi condanne. Cosa accomuna tutte queste vicende? La violenza verbale che si è scatenata contro i giudici. In questo ultimo caso abbiamo sentito i parenti e gli amici delle vittime urlare “bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio. E il magistrato è stato costretto a lasciare l’aula scortato. Tutto questo, ci chiediamo, è normale in un'aula di giustizia? E perché avviene?

Per il segretario dell’Ucpi, Eriberto Rosso, «è grave ed inaccettabile quanto accaduto. Se è doveroso la comprensione per il dolore e, financo per le aspettative delle persone vittime di reato, è però imprescindibile e regola assoluta di senso civico il rispetto dovuto al Giudice anche nel momento della lettura della sua pronuncia, quale che ne sia il contenuto». Per il penalista, «atteggiamenti violenti e minacciosi purtroppo danno conto di un pensiero sociale che oramai ritiene che la giurisdizione possa solo ratificare il convincimento di quella parte dell’opinione pubblica che non tiene conto delle regole del giusto processo, che sono garanzia di tutti e per tutti. Ovviamente - conclude Rosso -, ogni provvedimento è criticabile ma nei tempi e nei modi del confronto civile e non certo con comportamenti che vorrebbero condizionare la decisione. La nostra solidarietà va al giudice di quella pronuncia, nella convinzione che comunque tutti i soggetti della giurisdizione sanno affrontare con professionalità, autonomia e indipendenza il ruolo che la legge gli assegna».

Il frutto avvelenato sta nelle aspettative create nei familiari delle vittime da parte della procura, che immediatamente si riversano, come verità assoluta, sulla gran parte dei giornali e in televisione. Se poi quelle aspettative non si rispecchiano in una sentenza, ecco lo scandalo. Disse Glauco Giostra in un convegno: «Avete fatto caso che “giustizia è fatta” è esclamazione riservata soltanto alle sentenze di condanna?». Come non pensare a Matteo Salvini, che a pochi minuti dalla sentenza ha twittato: «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna». Gli ha risposto il presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, legale di uno degli imputati assolti, l’allora Prefetto di Pescara Francesco Provolo. «Tralascio di considerare il fatto che Lei, di questo processo, non sappia nulla. Non perché non sarebbe di per sé decisivo, ma perché è ormai diventata una regola, alla quale dobbiamo evidentemente rassegnarci: dei processi si parla senza averne letto una sola pagina. Questa sì che è una vergogna, ma che dire? Pazienza, ormai la cosa funziona così». In merito a quanto accaduto in aula ha concluso: «A noi hanno insegnato che le aule di giustizia sono luoghi sacri. Indossiamo una toga per potervi mettere piede. Parliamo se e quando autorizzati dal giudice, vincolati ad un uso riguardoso e controllato delle parole. È stato uno spettacolo che ha umiliato, non quel magistrato, ma la Giustizia ed il prestigio della giurisdizione».

A difesa del giudice non si è espresso il presidente dell’Anm Santalucia ma dalla Giunta distrettuale Anm Abruzzo è arrivata invece la piena «solidarietà» al collega, «pur esprimendo vicinanza ai familiari della tragedia di Rigopiano, che ha per sempre segnato il nostro territorio, e al dolore che gli stessi hanno manifestato». Anm Abruzzo in una nota «respinge fermamente ogni forma di attacco espresso senza che siano conosciute le motivazioni della sentenza, soprattutto se questo proviene da organi istituzionali, chiamati innanzitutto a garantire lo Stato di diritto di cui fanno parte». Con una nota ha parlato anche il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli: «La sentenza merita rispetto, così come rispetto è dovuto al giudice ed alla funzione dallo stesso esercitata, fermo restando il diritto di critica. Le aggressioni verbali in aula dopo la lettura della sentenza non possono essere tollerate, così come non è accettabile il dileggio del magistrato da chiunque posto in essere». Per il procuratore, «il giudice, nella solitudine della camera di consiglio, decide in piena indipendenza, senza dover assecondare le aspettative della opinione pubblica, attenendosi solo alla legge ed alle risultanze processuali».

A parlare con noi è il pm Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm e attuale Segretario di Area Dg: «Questi sono i frutti di una stagione avvelenata sui temi della giustizia, a causa di un veleno profuso a piene mani dalla classe politica che ha governato e continua a governare questo Paese, anche col supporto di potenti macchine comunicative per cui le decisioni dei giudici quando non sono gradite devono essere stigmatizzate nel modo più violento e viscerale possibile. Sono cose viste fare a personaggi pubblici del mondo politico e purtroppo anche in concomitanza di loro ruoli istituzionali. La frase di Salvini è solo la punta dell’iceberg di tutto quello a cui abbiamo assistito in passato. Questo determina in generale, nell’opinione pubblica, la convinzione diffusa che non solo le decisioni dei magistrati siano assunte in modo arbitrario, se non addirittura per reconditi interessi personali, ma soprattutto che non sia dovuto nessuno rispetto alle sentenze e a coloro che le emettono. L’episodio di Rigopiano è uno dei tanti: la frustrazione dei parenti delle vittime può trovare un minimo in più di giustificazione per il fatto che le persone che si sono abbandonate a questi sfoghi continuano a soffrire per una perdita ingiusta. Tuttavia in tanti anni molti hanno erroneamente tributato quella stessa giustificazione a persone che assumevano atteggiamenti ugualmente aggressivi approfittando del ruolo pubblico in relazione a vicende personali».

Infine Albamonte riserva una stoccata a Caiazza: «Lui, nel difendere il suo assistito, rivendica giustamente l’assoluzione da parte del giudice e si lamenta della contestazione da parte dei cittadini ma paradossalmente porta avanti da anni una campagna mediatica sulla separazione delle carriere incentrata sul fatto che i giudici oggi non sono imparziali».