È passato ormai quasi un mese dalla pronuncia con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver mantenuto in regime di 41 bis lo storico boss ‘ndranghetista ultranovantenne Giuseppe Morabito, affetto da Alzheimer in fase avanzata. Nonostante questo, e malgrado l’istanza inviata il 14 aprile al ministero della Giustizia, il carcere duro per “u Tiradrittu” non è stato ancora revocato.

Nella missiva indirizzata al ministro Carlo Nordio, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti ricorda i termini essenziali della sentenza del 10 aprile: «La Cedu ha rilevato una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, a causa della perdurante applicazione del regime differenziato a un novantenne con morbo di Alzheimer». L’avvocata chiede al ministro di «dare immediata ottemperanza» alla pronuncia, sottolineando le perizie d’ufficio del Tribunale di Sorveglianza di Roma che certificano un «declino cognitivo senza possibilità di cura reversibile».

Giuseppe Morabito, classe 1934, è rinchiuso dal 2006 nella casa di reclusione di Milano-Opera. Il 41 bis, ricordiamo, nasce per impedire ai boss ogni contatto diretto con l’esterno: colloqui dietro vetri, giornali e televisione sottoposti a censura, visite familiari limitate e soggette a rigidi controlli, comprese numerose afflizioni che nel tempo, grazie a diverse sentenze, sono state ritenute inutilmente afflittive. Un assetto pensato per isolare un boss, volto a evitare che dia ordini al proprio gruppo mafioso, che, applicato a un malato di Alzheimer in stato avanzato e privo di capacità di pensiero razionale, diventa una condizione disumana e degradante.

Il 41 bis, in sostanza, si trasforma in abuso. La stessa Corte Europea, nella sentenza di condanna, lo spiega chiaramente: «Non riesce a vedere come una persona che soffre di un declino cognitivo indiscusso – e addirittura con diagnosi di Alzheimer – e che non fosse in grado di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza in tribunale potesse allo stesso tempo mantenere una capacità sufficiente per mantenere o riprendere contatti significativi con un’organizzazione criminale».

Mentre si attende la risposta del ministro Nordio, a breve la Cassazione dovrà pronunciarsi sul ricorso contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha confermato il 41 bis disposto dal Guardasigilli. La sentenza della Cedu copre il periodo fino al 24 maggio 2023, data in cui Morabito è stato ospedalizzato d’urgenza per un’ernia, con conseguente interruzione del 41 bis. Ma durante la procedura innanzi alla Corte, il regime era stato nuovamente attivato. Motivo per cui l’avvocata Araniti ha presentato ricorso in Cassazione, integrandolo – dopo la sentenza Cedu – con una memoria che evidenzia come la Corte europea abbia giudicato ingiustificata la proroga del regime differenziato nei confronti del detenuto ultranovantenne.

Secondo la difesa, i provvedimenti – sia amministrativi che giurisdizionali – che hanno confermato il 41 bis per Morabito non hanno tenuto conto in modo adeguato delle sue condizioni di salute in relazione alla valutazione della pericolosità sociale. La memoria sottolinea che tre perizie mediche indipendenti hanno accertato «uno stato mentale decadente con annullamento della pericolosità sociale psichiatrica» e che il detenuto soffre di «una seria compromissione multiorgano» tipica della condizione di comorbilità dell’anziano. Un elemento centrale della memoria è che il Gip e il Tribunale di Milano hanno già dichiarato, in due procedimenti distinti, il non luogo a procedere per incapacità processuale di Morabito e la sua incapacità di intendere e volere al momento dei fatti.

L’ultima perizia ha rilevato «una condizione psicopatologica di grado maggiore, per il disturbo di carattere demenziale ad evoluzione necessariamente peggiorativa»: elementi che, secondo la difesa, sarebbero stati «del tutto bypassati» nel provvedimento che ha prorogato il 41 bis. Sempre nella memoria, l’avvocata Araniti solleva anche il tema per cui il regime speciale, per le severe restrizioni che impone all’interazione umana e alle attività ricreative, potrebbe accelerare il deterioramento cognitivo di Morabito.

Su questo punto la Cedu, pur non potendo speculare sull’effettivo impatto, ha osservato che «non si può escludere che le restrizioni alla socializzazione abbiano avuto un impatto» sullo sviluppo della malattia. Significativo anche che, come sottolineato dai giudici di Strasburgo, «le autorità nazionali non abbiano preso in considerazione l’opportunità di revocare o allentare alcune delle restrizioni supplementari al fine di soddisfare le potenziali esigenze del richiedente, nonostante le richieste esplicite da lui presentate».

La questione è chiara. Non si mette in discussione la necessità del 41 bis nei casi per il quale è stato concepito. Né la Corte Europea né la Consulta hanno mai affermato che il regime speciale sia incompatibile con la Convenzione dei diritti umani o con la Costituzione. Ma lo diventa se ne viene abusato. Diventa illegale, degradante, e una vera e propria forma di tortura se utilizzato con finalità che vanno oltre la sua ratio. Il vero banco di prova è questo. La vicenda Morabito, e non solo, mette a nudo una contraddizione: il cosiddetto “carcere duro” – che duro in realtà non dovrebbe esserlo – nasce per spezzare i vertici di cosche mafiose o organizzazioni terroristiche. Ma quando il detenuto ha perso ogni capacità cognitiva, il 41 bis diventa puro accanimento. Se la finalità è la sicurezza, mantenere in isolamento un uomo ultranovantenne che non comprende più nulla, perde completamente di senso.

Era già accaduto con l’ex capo mafia Bernardo Provenzano, per cui l’Italia è stata condannata con una sentenza del 25 ottobre 2018. All’epoca, la Cedu ritenne lo Stato responsabile di aver violato l’articolo 3 della Convenzione, secondo cui «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti». Il ricorso era stato presentato dall’avvocata Rosalba Di Gregorio: nonostante la grave decadenza delle facoltà fisiche e mentali, a Provenzano fu negata l’uscita dal 41 bis fino alla morte. Tre procure – Palermo, Firenze e Caltanissetta – si erano opposte alla richiesta ritenendolo ancora pericoloso. I fatti dimostrarono il contrario.

Basti ricordare che, a causa dello stato neurodegenerativo, non fu in grado di partecipare al processo fallimentare sulla trattativa Stato-mafia. A firmare il rinnovo del 41 bis per Provenzano fu l’allora ministro Andrea Orlando. E ci costò una condanna. Ora ne abbiamo un’altra. Come denunciò il magistrato antimafia Alfonso Sabella – colui che ha catturato Brusca, Bagarella, Aglieri e altri latitanti storici – se il 41 bis si degrada a strumento di tortura, con nuove condanne rischia di decadere. Oggi l’urgenza è un gesto formale che paradossalmente salverebbe il carcere speciale: la firma del ministro Nordio per la revoca del 41 bis a Giuseppe Morabito.