Se foste sotto interrogatorio, confessereste un crimine che non avete commesso? Si tratta di un argomento poco discusso qui in Italia, al contrario degli Stati Uniti, invece, dove è molto sentito. Sebbene l'idea che qualcuno possa confessare un crimine che non ha commesso possa sembrare controintuitiva agli osservatori occasionali, la realtà è che le false confessioni si verificano regolarmente.

Secondo il National Registry of Exonerations (Registro Nazionale delle persone scagionate, progetto realizzato dalla University of California Irvine, the University of Michigan Law School and Michigan State University College of Law), al 4 ottobre 2022 il 34% dei giovani sotto i 18 anni al momento del crimine ha reso una falsa confessione. La percentuale scende al 10 per i maggiorenni ma schizza al 69% per persone con malattie mentali o disabilità intellettive. Inoltre, in base ai dati dell'Innocence Project, dei 258 casi di proscioglimento grazie alla prova del Dna di cui si è occupato finora, il 25% riguardava una falsa confessione.

Ma perché le persone confessano crimini che non hanno commesso? Come hanno ricordato in un articolo il professore di legge Samuel Gross e il giornalista premio Pulitzer Maurice Possley «se avete mai guardato una delle decine di migliaia di ore di televisione dedicate alle fiction poliziesche, conoscete il primo avvertimento dato ai sospetti che vengono arrestati e interrogati. E il secondo: “Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei”. Questo grazie ai Miranda warnings - che prendono il nome dal caso Miranda contro Arizona, la decisione della Corte Suprema del 1966 che le ha imposte». Questo tipo di avvertimenti sono stati «il culmine di 30 anni di cause della Corte Suprema volte a proteggere i sospetti criminali dagli abusi negli interrogatori della polizia».

Eppure, dover aver vietato violenze e torture da parte della polizia, le false confessioni continuano ad arrivare. Perché? Gli scienziati da anni stanno lavorando per capire meglio la psicologia delle false confessioni. Uno dei massimi studiosi del fenomeno è Saul Kassin, Professore emerito di psicologia al John Jay College of Criminal Justice di New York, esperto di interrogatori da parte delle forze dell’ordine. Come ricorda un articolo del Washington Post sul tema, Kassin ha testimoniato in diversi casi, come quello relativo a Barry Laughman, un ventiquattrenne con disabilità intellettiva ingiustamente condannato per stupro e omicidio nel 1988 e liberato grazie alla prova del Dna dopo 16 anni di carcere. La ricerca di Kassin ha rivelato come le tecniche di interrogatorio della polizia, quali l'applicazione di una maggiore pressione psicologica e il bluff con proposte di ulteriori prove incriminanti, mettano le persone a rischio di false confessioni. Proprio nella vicenda di Laughman, l’uomo aveva un Quoziente Intellettivo di 70 e si comportava come un bambino di 10 anni. Alcune settimane dopo il crimine, la polizia disse a Laughman che le sue impronte digitali erano state trovate sulla scena del crimine. Egli confessò quindi agli investigatori di aver commesso il delitto. Ma era innocente.

Un altro caso, citato dal National Registry of Exonerations, è quello riguardante Juan Rivera: nell'ottobre 1992, dopo un estenuante interrogatorio durato quattro giorni, il diciannovenne confessò falsamente lo stupro-omicidio di una bambina di 11 anni nella contea di Lake, nell'Illinois. In realtà, confessò due volte. La sua prima confessione era talmente infarcita di errori fattuali che gli investigatori gliela fecero ripetere per “chiarire” le incongruenze, anche se Rivera era chiaramente in uno stato di collasso mentale. Rivera fu condannato per omicidio nel 1993 e di nuovo nel 1996 dopo che la sua prima condanna fu annullata per una serie di errori legali. Nel 2005, i test del DNA dimostrarono che un altro uomo era la fonte dello sperma recuperato dal corpo della vittima. Secondo Kassin una tattica potenzialmente problematica è la presentazione di prove false.

La polizia americana è autorizzata a sostenere le proprie accuse dicendo ai sospetti che esistono prove inconfutabili della loro colpevolezza (ad esempio, un campione di capelli, l'identificazione di un testimone oculare o un test della macchina della verità fallito), anche se tali prove non esistono. Questo tipo di inganno può intrappolare persone innocenti e indurle confessare? Nel corso degli anni, la ricerca di base ha dimostrato che la disinformazione può alterare le percezioni, le convinzioni, i ricordi e i comportamenti delle persone.

Per quanto riguarda la confessione, questa ipotesi è stata testata in un esperimento di laboratorio. Studenti universitari avrebbero dovuto digitare su una tastiera in quello che pensavano fosse uno studio sui tempi di reazione. A un certo punto, i soggetti sono stati accusati di aver causato il crash del computer, avendo premuto un tasto che era stato detto loro di non usare. È stato chiesto loro di firmare una confessione. Tutti i soggetti che erano veramente innocenti hanno inizialmente negato l'accusa. In alcune sessioni, una persona che sapeva della finalità dell’esperimento ha dichiarato di aver assistito alla pressione del tasto proibito. Questa falsa prova ha quasi raddoppiato il numero di studenti che hanno firmato una confessione scritta, dal 48% al 94%. Una seconda tattica problematica è la minimizzazione, il processo con cui chi interroga minimizza il crimine, offrendo comprensione e giustificazioni morali. Suggeriscono ai sospetti che le loro azioni sono state spontanee, accidentali, provocate, pressate da altri o comunque giustificabili. La minimizzazione ha aumentato non solo le confessioni da parte dei veri colpevoli, ma anche le false confessioni da parte degli innocenti. Inoltre alcune persone sono più malleabili di altre dal punto di vista della disposizione d'animo e a maggior rischio di false confessioni.

Per esempio, gli individui la cui personalità li rende inclini alla cedevolezza in situazioni sociali sono particolarmente vulnerabili a causa del desiderio di compiacere gli altri e di evitare il confronto. Gli individui che sono inclini alla suggestionabilità, i cui ricordi possono essere alterati da domande fuorvianti e feedback negativi, sono anch'essi soggetti all'influenza. La giovane età è un fattore di rischio particolarmente rilevante: più del 90% dei minori che la polizia cerca di interrogare rinuncia ai diritti.