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«Per una mirabile congiunzione astrale», scriveva questa mattina Marco Travaglio, mentre il Tribunale di Brescia condannava «uno degli italiani e dei magistrati più onesti e corretti mai visti», ovvero Piercamillo Davigo, la Corte d’appello di Milano assolveva l’ex sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti, «non perché fosse innocente (l’aveva già escluso la Cassazione), ma perché la sua turbativa d’asta era “tenue” (ha solo truccato una gara pubblica per dare l’appalto a chi pareva a lui)». Un editoriale, quello del direttore del Fatto, che contiene più di una inesattezza. A partire dalla considerazione - sbagliata in linea di principio - che la Cassazione sia entrata nel merito, escludendo l'innocenza di Uggetti. E insistendo sulla ovvia innocenza di Davigo - che verrà eventualmente accertata in appello -, certificata, secondo Travaglio, dal fatto che nessuna delle persone alle quali l’ex pm ha spifferato fatti segreti abbia denunciato. Una circostanza da far rabbrividire - questo il pensiero espresso dal direttore -, che certificherebbe un dato storico: l’Italia è un Paese che funziona al contrario e dove uno che «ha commesso il reato» come Uggetti viene assolto, mentre uno che non ha «mai smesso di ricordare a chi ricopre cariche pubbliche il dovere costituzionale di esercitarle “con disciplina e onore”» come Davigo viene condannato. «Dove sono i processi per omessa denuncia?», si chiede Travaglio, come se l’eventuale reato di qualcun altro annullasse quello che secondo il Tribunale di Brescia è il reato commesso da Davigo.
Ma andiamo con ordine. L’ex pm di Mani Pulite, come noto, è stato condannato ad un anno e tre mesi perché una volta ricevuti in maniera indebita dal collega milanese Paolo Storari i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta e inesistente Loggia Ungheria, anziché invitare il magistrato a seguire le vie formali, ha diffuso le informazioni contenute in quei verbali, invitando anche altri colleghi a prendere le distanze dall’ex amico Sebastiano Ardita (ma non da Marco Mancinetti, altro presunto affiliato alla loggia). Un invito inutile rispetto al fine dichiarato, ovvero sbloccare le indagini che, secondo Storari, i vertici della procura volevano affossare. Tant’è che esclusi i membri del Comitato di Presidenza, nessuno avrebbe potuto fare nulla, se non invitare Davigo a seguire le regole. L’ex pm, per giustificare le sue azioni, si è sempre appigliato a una circolare del Csm, interpretata, secondo procura e giudici, in maniera sbagliata. Circolare che, ovviamente, nulla dice sul Presidente della Commissione Antimafia - altro soggetto informato da Davigo - che può sì conoscere atti coperti da segreto, ma chiedendoli all’autorità giudiziaria, che può anche ritardare la trasmissione degli atti per motivi di natura istruttoria. E l'ex presidente Nicola Morra, in realtà, non ha chiesto nulla, avendo potuto leggere il nome di Ardita nella tromba delle scale del Csm, dove è stato l’ex pm a condurlo. Ma c’è di più: Morra si è rivolto all’autorità giudiziaria, forse tardi, ma lo ha fatto, segnalando di aver visto documenti segreti che di certo avrebbe preferito non vedere. E che circolassero documenti segreti, parlando addirittura di complotto, è stato anche Nino Di Matteo a svelarlo, prendendo la parola al plenum del Csm e rompendo il silenzio su una vicenda a dir poco assurda. Ci si potrebbe fermare anche qui, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, che chiariranno a tutti, Travaglio compreso, quali prove abbiano smentito la tesi di Davigo.
Ma c’è anche un altro fatto: il gup di Roma, nell’assolvere l’ex segretaria di Davigo, accusata di aver calunniato l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, ha trasmesso gli atti alla procura per valutare due ulteriori ipotesi di reato compiute nell’affaire verbali. Si tratta dell’omessa denuncia contestata all’ex consigliere del Csm Giuseppe Cascini, e delle ipotesi di violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia, contestate all’ex consigliere Giuseppe Marra. Reati, quelli ipotizzati dal gup, commessi nella gestione di quei verbali, consegnati ai due magistrati proprio da Davigo, e sui quali è ancora pendente un’inchiesta a Perugia. Il gup di Roma era andato anche un po’ oltre, descrivendo «un'immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato - in questa o in altre vicende - non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall'Organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica - si consenta - della “congiura di Palazzo”». E un passaggio era dedicato anche a Davigo, spintosi, secondo il giudice, «ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato» del Csm. Insomma, al momento sono quattro - uno a Roma e tre a Brescia - i giudici secondo cui l’ex pm di Mani Pulite avrebbe sbagliato. E pensare che tutti se la prendano con lui perché unico “grillo parlante” in Paese di mangiafuoco forse è un po’ riduttivo.
C’è poi il caso Uggetti. Che secondo Travaglio era già stato chiarito dalla Cassazione, allorquando annullò con rinvio l’assoluzione piena ottenuta nel primo appello. Ma cosa diceva la sentenza della Suprema Corte? Non c’era scritto da nessuna parte che Uggetti non fosse innocente - e gli Ermellini, d’altronde, non avrebbero potuto farlo -, bensì che fosse necessaria una motivazione rafforzata, per giustificare il ribaltamento della sentenza in appello, dopo la condanna a 10 mesi rimediata in primo grado. Ma qui il fatto si fa ancora più simpatico: anche la sentenza di primo grado, quella che condannava Uggetti, aveva certificato che l’ex sindaco si era mosso nell’interesse pubblico. Un fatto scritto nero su bianco, pur considerando l’azione del politico un atto fuori dalle regole. I giudici d’appello avevano invece considerato completamente innocente l’ex sindaco, sottolineando che non si può «punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali» che, invece, «debbono essere idonee a ledere i beni giuridici protetti dalla norma», in questo caso la libera concorrenza. Nel valutare i fatti, le giudici avevano verificato, «da un punto di vista oggettivo», se vi fosse o meno un’alterazione del bando nei termini di una «indebita influenza», attraverso la quale, secondo l’accusa, l’interesse pubblico sarebbe stato piegato agli scopi di parte. E la risposta era negativa: «Non risulta essersi verificato alcun sviamento di potere, nemmeno nell’esplicazione di quel margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge per l’esercizio di poteri di indirizzo». Ma alla Cassazione non era bastato, contestando un errore nell’inquadramento giuridico del reato e chiedendo a nuovi giudici d’appello di rispondere a cinque questioni non sufficientemente chiarite dalle motivazioni. Dove fosse scritto che Uggetti non era sicuramente innocente non è dato saperlo, dal momento che la Cassazione si è limitata a criticare l’approccio metodologico della Corte d’Appello di Milano. Ma anche questo rientra nello strabismo di chi le sentenze - e chi le scrive - le apprezza solo quando fanno comodo.