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IL PALAZZO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Cassazione torna a pronunciarsi su un tema delicato: la legittimazione della parte civile a impugnare quando il giudice dichiara estinto il reato per prescrizione. Con una sentenza depositata il 12 settembre 2025, la Sesta sezione penale ha stabilito che l’impugnazione è ammissibile se la qualificazione giuridica del fatto incide direttamente sull’esistenza o meno del diritto al risarcimento. Chi concorre nel reato non ha diritto al risarcimento dei danni dal reato che ha contribuito a commettere; chi è vittima del reato è invece titolare di detto diritto, evidenzia la Cassazione, ribadendo che l’interesse ad agire deve essere concreto e attuale, non meramente strumentale.
Il principio si colloca in una vicenda complessa che coinvolge una società dichiarata fallita, e gli appalti affidati ad un’altra azienda. Secondo le accuse, nei libretti di misura e negli stati di avanzamento lavori erano state inserite opere mai realizzate, consentendo alla società fallita di incassare pagamenti indebiti. Per i reati di falso e truffa (capi A e B) la prescrizione era già maturata, mentre il capo C riguardava un episodio in cui l’imprenditore avrebbe consegnato due assegni da 7mila euro. Il Tribunale aveva riqualificato il fatto come “induzione indebita” e non come concussione. Una differenza tutt’altro che formale: nel primo caso chi paga viene considerato correo e non può pretendere risarcimento; nel secondo è vittima e quindi titolare del diritto al danno.
Le parti civili del procedimento penale all’esame della Suprema Corte, avevano fatto ricorso sostenendo che la riqualificazione avesse inciso direttamente sui loro diritti. La Cassazione ha dato loro ragione: se il fatto fosse ricondotto al reato di concussione, il termine di prescrizione non sarebbe maturato e la domanda risarcitoria potrebbe essere accolta nel processo penale, senza dover ricominciare in sede civile. Per questo la sentenza d’appello viene annullata sul capo C e rinviata a nuovo giudizio. Un altro passaggio decisivo riguarda la responsabilità amministrativa degli enti.
La Corte d’appello aveva attribuito alla società fallita la responsabilità ex d. lgs. 231/ 2001 sostenendo che due dipendenti, un project manager e un tecnico di cantiere, avessero funzioni direttive. Ma la Cassazione è stata netta: la contestazione si fondava sull’articolo 5, lettera b), che riguarda i soggetti sottoposti alla direzione altrui. In questi casi non vale il regime probatorio previsto per gli apicali, ma occorre dimostrare una “colpa di organizzazione”, cioè la mancata vigilanza da parte dei vertici.
«Sul punto la sentenza è del tutto silente», hanno osservato i giudici, sottolineando che non si può presupporre l’esistenza di ruoli direttivi senza una verifica puntuale. Anche su questo aspetto il verdetto è stato annullato con rinvio. Diverso l’esito per gli altri capi. Per i reati già prescritti di falso e truffa, i ricorsi delle parti civili sono stati dichiarati inammissibili perché l’interesse a impugnare era solo indiretto e non concreto. Per l’accusa di estorsione (capo D) la Cassazione ha confermato l’inammissibilità, ritenendo che le doglianze si riducessero a una richiesta di nuova valutazione delle prove.