«Ritengo doveroso presentare la dichiarazione di astensione» per il processo sulla strage di Piazza della Loggia, «sussistendo le “gravi ragioni di convenienza”» indicate dal codice di procedura penale. Sono parole pesanti quelle di Roberto Spanò, il giudice di Brescia passato al civile per evitare l’incompatibilità con la moglie pm dopo 17 anni di convivenza nello stesso ufficio giudiziario, che ha annunciato al presidente del Tribunale, a quello della Corte d’Appello e al Csm la sua intenzione di lasciare il processo, finora da lui presieduto.

La decisione matura dopo il plenum del 16 luglio scorso, quando il Consiglio avrebbe dovuto archiviare la pratica di incompatibilità tra Spanò e la moglie Roberta Panico, magistrato della Dda, in virtù del trasferimento di Spanò al civile. Una scelta effettuata per evitare che fosse la moglie a trasferirsi – come già deliberato dal Csm – con impatto rilevante sulla vita familiare. Ma il dibattito è andato oltre, entrando nel merito e lanciando ombre sull’operato di Spanò, senza possibilità di contraddittorio.

Per questo, in nove pagine dense di riferimenti e riflessioni, Spanò ha spiegato le sue ragioni: «Nella pratica di incompatibilità si sono spesi argomenti che pesano come macigni sulla legittimazione non solo della mia persona, ma anche di quella dell'Ufficio presso il quale è incardinato il processo, rispetto a cui non può essere ignorato il richiamo ai valori imprescindibili ai quali deve tendere la giurisdizione». Spanò riprende le parole del vice presidente Fabio Pinelli, secondo cui «una situazione in cui marito e moglie svolgono rispettivamente le funzioni di giudice e pubblico ministero nello stesso ufficio pone “una questione ordinamentale” che crea un’immagine opaca dell’amministrazione della giustizia, dato che “non basta essere imparziali ma apparire anche imparziali: la percezione dei cittadini, infatti, costituisce parte integrante della legittimazione democratica della funzione giudiziaria, che si fonda sul prerequisito di autonomia, indipendenza e imparzialità”».

Secondo Pinelli, Spanò avrebbe dovuto «prevenire, con scelta autonoma, una situazione potenzialmente idonea a gettare discredito sulla magistratura intaccandone il “profilo reputazionale di autorevolezza nel Paese”, chiedendo il trasferimento ad altra sede senza la necessità di attendere l’intervento del Csm, e ciò per senso di responsabilità istituzionale, “opportunità e trasparenza”, onde tutelare l’immagine di terzietà e indipendenza dell’Ufficio di appartenenza». Ma è esattamente ciò che Spanò aveva fatto nel 2007, quando chiese il trasferimento in via definitiva proprio ritenendo sussistente l’incompatibilità. Fu il Csm a stabilire, a seguito di verifiche, «insussistente» la questione. Per questo motivo i due sono rimasti nella stessa sede per 17 anni, «senza incorrere in segnalazioni di criticità da parte dell’utenza», senza ricusazioni o dubbi sull’indipendenza.

Negli ultimi sette anni, poi, solo due processi collegiali su 1830 sono migrati dalla Prima alla seconda Sezione penale per motivi di incompatibilità. La situazione è stata riesaminata dal Consiglio giudiziario nel 2023 e nel 2025, confermando all’unanimità «l’insussistenza in concreto di ogni ipotesi di interferenza».

In virtù di ciò, sottolinea Spanò, «è evidente come le parole pronunciate in plenum dal vice presidente Pinelli gettino una pesante ombra di delegittimazione non solo rispetto alla possibilità da parte mia di continuare a svolgere a Brescia funzioni penali ( e, forse, anche sulla attività giudiziaria da me prestata nel passato), ma, più in generale, sulla credibilità dello stesso Tribunale», soprattutto nel momento in cui c’è da celebrare il processo sulla strage». Nel dibattito, qualcuno ha anche lamentato la lentezza del procedimento, ignorando non solo la complessità del fascicolo, ma anche il carico di lavoro ordinario concomitante. Inoltre, per affrontare al meglio il processo, Spanò aveva chiesto «misure di supporto» mai arrivate. Alcune affermazioni in plenum, secondo Spanò, sarebbero state «lesive» della sua reputazione. Non solo durante la discussione, ma anche per una nota che ipotizzava comportamenti risultati, a seguito di approfondimenti, non sussistenti.

La nota includeva, poi, riferimenti a presunte «frizioni» con i colleghi e a una «mancanza di equilibrio», smentiti dalle audizioni dei magistrati di Brescia. Una nota dal «contenuto gratuitamente denigratorio», stigmatizzata da 14 consiglieri, tra cui il procuratore generale della Cassazione: «Una forzatura - ha aggiunto Spanò - che ha offerto una ricostruzione unilaterale della vicenda, introducendo elemento di tensione gratuita in un contesto in cui invece si sarebbe dovuto mirare al massimo equilibrio e alla massima pacificazione».

Alla luce di tutto ciò, «mi pare in tutta evidenza che non vi siano da parte mia le condizioni di poter svolgere con la dovuta legittimazione e serenità» non solo il processo sulla strage, ma «qualsivoglia attività nel settore penale», anche per evitare conseguenze sul Tribunale e polemiche dopo la sentenza. Tocca al presidente del Tribunale, ora, decidere se accogliere o meno l’astensione. E ciò rischia di far ripartire da zero il processo su una delle vicende più buie della storia d’Italia.