Cinquant’anni, una serie impressionante di istruttorie e processi e una verità ancora parziale. La storia giudiziaria della strage di Piazza della Loggia sembra non finire mai. Un cammino lungo e accidentato, caratterizzato da errori, depistaggi accertati e colpi di scena improvvisi.

Due, ad oggi, i responsabili individuati e condannati all’ergastolo in via definitiva nel 2017: Carlo Maria Maggi, esponente di spicco dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo, deceduto nel 2018, considerato il mandante dell’attentato, e Maurizio Tramonte, militante ordinovista e già informatore del Sid (i servizi segreti per la Difesa) noto come “Fonte Tritone”, ritenuto uno degli esecutori materiali.

Ma a 50 anni di distanza pendono ancora due processi per accertare altre responsabilità di quel tragico 28 maggio 1974: uno presso il Tribunale dei minori di Brescia, nei confronti del sessantasettenne Marco Toffaloni, di poco minorenne nel giorno della strage, e uno a carico di Roberto Zorzi, nel frattempo diventato cittadino americano. L’unica certezza consegnata alla storia e alle aule di tribunale è che quel bagno di sangue fu concepito dai neofascisti veneti di Ordine Nuovo, che potevano contare su molte braccia a Brescia e tante complicità negli apparati dello Stato.

Quegli stessi apparati che hanno contribuito a rendere quasi impossibile l’individuazione di tutte le tessere di un puzzle complicato fin dalle prime ore successive a quel botto. È quello che la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Milano (poi confermata in Cassazione) nel 2016 definisce «opera sotterranea» condotta da un «coacervo di forze» che di fatto ha reso «impossibile la ricostruzione dell’intera rete di responsabilità », con un risultato devastante «per la dignità stessa dello Stato e della sua irrinunciabile funzione di tutela delle istituzioni democratiche».

L’inchiesta parte subito monca, condizionata dalla scelta improvvida del vice questore di Brescia, Aniello Diamare, di far lavare la piazza da un’autobotte dei pompieri a due ore dalla strage. Il lavaggio, disposto prima ancora dell’arrivo del magistrato, porta alla dispersione dei reperti essenziali, tanto che il collegio dei periti potrà stabilire solo in modo assai approssimativo la natura e la quantità dell’esplosivo impiegato.

Il primo filone di indagini e il primo processo, terminato nel 1979, si concentrano su un livello locale della possibile pianificazione e realizzazione della strage. È il mondo che ruota attorno a Ermanno Buzzi e Angelino Papa, esponenti della galassia neofascista e malavitosa. Più teppaglia che militanti politici capaci di pianificare una strage. Buzzi è un noto traffichino e ladro di opere d’arte, ad accusarlo è Luigi Papa, padre di Angelino e Raffaele: dice di aver saputo in altre circostanze che Buzzi ha messo delle bombe in piazza Loggia. Le condanne sono pesanti: l’ergastolo per Buzzi, 10 anni e 6 mesi per Angelino Papa. La Corte d’Assise d’appello bresciana però assolverà tutti. Buzzi incluso, anche se da deceduto, perché nel frattempo è stato assassinato nel carcere di massima sicurezza di Novara dai neofascisti Pierluigi Concutelli e Mario Tuti: lo strangolano utilizzando i lacci delle scarpe.

«L’ipotesi è che Buzzi sia stato ucciso per aver preannunciato di voler parlare al processo d’appello», spiega Michele Bontempi, avvocato di parte civile al processo sulla Strage. «Tuti e Concutelli, da parte loro, hanno sempre detto di averlo ucciso, invece, perché era un “infame”, un delatore, un informatore di Carabinieri». Il 30 novembre del 1982, però, la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado bresciana e dispone l’invio degli atti alla Corte di Assise di appello di Venezia per un nuovo processo. Si concluderà con assoluzioni a pioggia per insufficienza di prove.

Ma a seguito di una serie di nuove rivelazioni di esponenti della destra carceraria, nel marzo del 1984, si apre una nuova istruttoria a Brescia. Al centro delle indagini Cesare Ferri, già finito sotto la lente d’ingrandimento della magistratura nel 1974 e poi prosciolto. L’iter processuale terminerà in un nulla di fatto anche questa volta. Ci vorranno tanti altri anni e tanti altri processi per ricostruire almeno un pezzo di questo puzzle e individuare due colpevoli nel 2017. «Le prove importanti a carico di Maggi sono tre. Una generica, cioè il ruolo: era a capo di Ordine Nuovo Veneto e quindi aveva un ruolo preminente e decisionale», dice ancora Bontempi.

Poi ci sono i dettagli contenuti nei «famosi appunti della Fonte Tritone, cioè gli appunti informativi scritti dal maresciallo Felli sulla base di un racconto ricevuto da Tramonte che si qualificava come informatore ». È da quegli “appunti” che salta fuori «una riunione avvenuta tre giorni prima della strage ad Abano Terme, a casa di Gian Gastone Romani, esponente dell’estrema destra, nel corso della quale si è deciso di realizzare la strage in quei termini ». Tramonte descrive quella riunione «come un monologo di Maggi, quindi Maggi assume la posizione di chi decide sostanzialmente che quel famoso attentato nel Nord Italia doveva essere fatto a Brescia il 28 maggio», racconta ancora l’avvocato Bontempi.

C’è infine una terza prova: un’intercettazione ambientale del 1995 tra i “camerati” Raho e Battiston. «Nel maggio 1974 si trovavano a Venezia e frequentavano lo stesso ambiente di Maggi», continua il legale. «I due parlano a ruota libera, non sanno minimamente di essere intercettati. Hanno saputo che Carlo Digilio, uno dei pentiti che accusa Maggi, ha iniziato a collaborare, e dicono di aver appreso proprio da Digilio che il giorno prima della strage, Marcello Soffiati, altro personaggio vicino a Maggi, era partito per Brescia con una valigia piena di esplosivo. Temono che Digilio possa dire la verità anche sulle cose grosse, cioè su piazza della Loggia. Temono di essere tirati in ballo», ricostruisce l’avvocato di parte civile.

Cosa aspettarsi dunque dall’ultimo filone ancora aperto sulla strage di Brescia? «Che gli imputati vengano condannati se ci sono prove e che vengano assolti in caso contrario. L’importante è che vengano confermati la matrice della strage e l’ambiente nel quale è maturata», conclude Bontempi.