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IL PALAZZO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla corretta applicazione delle nuove pene sostitutive previste dalla riforma Cartabia, affermando un principio chiaro: la decisione sulla sostituzione della pena detentiva con sanzioni alternative spetta al giudice, non all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). Un’affermazione che, nel caso specifico, ha comportato l’annullamento con rinvio della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Lecce nei confronti di un imputato, condannato per simulazione di reato. Nel corso del giudizio di secondo grado, l’imputato aveva chiesto la sostituzione della pena detentiva con lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, facendo riferimento a un programma predisposto dall’Uepe.
La Corte territoriale, pur ritenendo astrattamente ammissibile la sostituzione, aveva respinto la richiesta, sostenendo che il programma non rispettasse i parametri minimi previsti per legge e fosse incongruo rispetto alla gravità del fatto. Secondo i giudici salentini, una volta ritenuto non idoneo il programma proposto, non spettava al collegio interloquire ulteriormente con l’Uepe, né modificarne il contenuto, dal momento che l’articolo 545- bis del codice di procedura penale non attribuirebbe al giudice poteri di intervento in tal senso.
Una lettura, questa, che la Suprema Corte ha giudicato errata e viziata da un fraintendimento sostanziale del nuovo assetto normativo. La sentenza chiarisce infatti che, proprio alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma del 2022 (e rafforzate, secondo quanto scritto in sentenza, dal decreto legislativo n. 31/ 2024), il giudice mantiene un ruolo centrale e attivo nella determinazione della pena individualizzata. L’articolo 545- bis del codice di procedura penale attribuisce infatti alla giurisdizione il compito non solo di verificare l’ammissibilità astratta della sostituzione, ma anche di procedere all’acquisizione di tutte le informazioni utili per calibrare una risposta sanzionatoria coerente con le esigenze rieducative del reo.
Secondo i giudici di legittimità, l’approccio adottato dalla Corte d’Appello di Lecce ha finito per svilire la funzione del giudice, riducendolo a un soggetto passivo, tenuto a recepire o rigettare le proposte dell’Uepe senza possibilità di intervento correttivo o integrativo. Una posizione inaccettabile, secondo la sesta sezione penale del Palazzaccio, perché finisce per attribuire a un ufficio amministrativo - esterno alla giurisdizione - una funzione che, per legge e principio costituzionale, spetta esclusivamente al potere giudicante. La Cassazione sottolinea che il modello delineato dalla nuova disciplina processuale non contempla automatismi né rigidità procedimentali.
Al contrario, il legislatore ha voluto disegnare un sistema flessibile e partecipativo, in cui il giudice, le parti e l’Uepe interagiscono per costruire un trattamento sanzionatorio «ritagliato sull’unicità del condannato», tenendo conto delle sue condizioni personali, familiari, economiche e sociali. In questa logica, il giudice può (e deve) attivare un’interlocuzione con l’Uepe per chiarimenti, modifiche, integrazioni e per ottenere una proposta compatibile con gli obiettivi costituzionali della pena: evitare la recidiva e favorire il reinserimento sociale. Il caso di specie evidenzia come tale dialogo non sia stato attivato: la Corte d’Appello di Lecce si è limitata a constatare l’inidoneità del programma proposto, senza spiegare perché non fosse possibile richiedere una riformulazione o valutare soluzioni alternative.
Secondo la Cassazione, tale omissione ha rappresentato una compressione ingiustificata del potere- dovere del giudice di procedere a una valutazione complessiva, non solo quantitativa, ma anche qualitativa, della sanzione da applicare. Richiamando l’articolo 58 della legge n. 689/ 1981, nella versione del decreto legislativo n. 150/ 2022, la Corte di Cassazione ribadisce che la scelta tra le diverse pene sostitutive non può essere predefinita o meccanica: deve tenere conto delle esigenze di rieducazione, della prevenzione della recidiva, ma anche dell’impatto sulla libertà personale dell’imputato, da contenere nei limiti strettamente necessari. Solo nel caso in cui il giudice ritenga che la semilibertà o la detenzione domiciliare siano preferibili rispetto al lavoro di pubblica utilità o alla pena pecuniaria, è tenuto a fornire una motivazione rafforzata, trattandosi di misure più afflittive.
In definitiva, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando la sentenza e rinviando per un nuovo esame a una sezione diversa della Corte d’appello di Lecce, che dovrà applicare correttamente i principi delineati, attivando un nuovo confronto con l’Uepe e le parti per valutare in che misura – e con quali modalità – la pena possa essere effettivamente sostituita.