Ieri al termine di un rito abbreviato, l’avvocato Piergiorgio Manca, 77 anni, uno dei principi del Foro di Roma, è stato condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per concorso esterno ad associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Il pm Mario Palazzi aveva chiesto una condanna molto più alta, a otto anni di reclusione.

L'inchiesta riguardava un traffico di droga proveniente dalla Colombia: secondo gli investigatori, l’aeroporto romano di Fiumicino sarebbe stato utilizzato come la porta d’ingresso in Italia della cocaina fornita da un cartello della droga colombiano. A consentirne l’importazione sarebbe stata un’organizzazione di tredici persone, ai cui vertici ci sarebbero stati tre carabinieri (che hanno scelto il rito ordinario). I militari non avrebbero fermato volutamente una donna che proveniva dal sud America con la cocaina, mentre l'avvocato Manca è stato accusato di aver consentito la circolazione d’informazioni tra i componenti dell’organizzazione criminale e di aver fornito assistenza morale e materiale ai detenuti del clan. Gli incontri con gli altri indagati si sarebbero tenuti nel suo studio legale, dove sono stati intercettati.

«Ho sempre creduto nella giustizia. Me lo hanno insegnato i miei genitori. Me ne sono convinto facendo l’avvocato in tutti questi anni – ha detto l’avvocato Manca dopo la lettura della sentenza –. Seppure in questo momento prevale in me un senso di scoramento, sono certo che la mia innocenza verrà riconosciuta». Abbiamo ascoltato anche il suo avvocato Cinzia Gauttieri, già presidente della Camera Penale di Roma: «Al momento c’è solo un dispositivo, in cui leggo che da una imputazione originaria di “partecipazione” si è passati al “concorso esterno”. A questo punto sono molto curiosa di leggere le motivazioni: vedremo quale fantasiosa ricostruzione fattuale conterrà e quali interpretazioni – mi passi il termine – artistiche tireranno fuori dalla giurisprudenza per arrivare a tale conclusione». Quello che «preoccupa di più» per la legale è «questo atteggiamento e questa modalità di attenzione molta moralista nei confronti del lavoro degli avvocati in tutta Italia. Si tratta di una concezione distorta della figura del difensore perché lo identifica con il suo assistito e con il reato da questo commesso. Sono convinta che il collega è del tutto estraneo ai fatti che gli vengono contestati».

L’avvocato poi ricorda che «tutto questo nasce da intercettazioni ambientali durate due anni e quattro mesi. Le intercettazioni sono previste per un determinato catalogo di reati. In questo catalogo non è previsto il favoreggiamento che nelle peggiori delle ipotesi accusatorie poteva essere il reato per cui indagare il mio assistito. Allora cosa sta succedendo nei vari processi in cui sono imputati gli avvocati? Si alza il tiro e diventano concorrenti delle condotte dei loro assistiti. Questo determina la violazione dell’articolo 103 comma V del ccp (Non è consentita l'intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, nè a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, ndr)».

Su quanto accaduto si è espressa anche la Camera penale di Roma: «Grande turbamento nella nostra comunità ha destato la condanna di un famoso collega; è sicuramente un professionista stimato, di lunga esperienza e che ben possiamo definire un galantuomo, a noi tutti noto per la sua amabilità e per la sua competenza. Senza entrare nel merito del processo, che siamo certi troverà sicura e positiva definizione in appello, possiamo però dire che questa sentenza “stona” con la statura umana e professionale del collega e, allo stesso tempo, desta grande apprensione per il futuro dell’avvocatura penalista».

Il problema è lo stesso sollevato dall’avvocato Gauttieri: «Sono infatti ormai innumerevoli - scrivono i penalisti romani, presieduti da Gaetano Scalise - le indagini che da tempo, e non solo nel nostro Foro, vedono coinvolta la figura del difensore; indagini spesso espletate in violazione delle garanzie costituzionali e procedimentali poste a tutela della funzione della difesa, con il ricorso ad intercettazioni ambientali e telefoniche disposte in violazione dei limiti normativi (art. 103 c.p.p.) o surrettiziamente giustificate da fantasiose imputazioni, spesso mutate in corso d’opera che, invece, quella attività intercettiva permettono». In conclusione la Camera Penale «denuncia con preoccupazione tutto ciò: il pericolo reale, in parte già inverato, di indagini così occhiute sulla funzione difensiva è che si determini un clima di sospetto e intimidatorio nei confronti dell’avvocatura».