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Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti
Il problema della libertà di Giovanni Toti è ormai solo politico. E dovrebbero essere i primi, i sindacalisti delle toghe, quelli che minacciano sfracelli contro chi osasse anche solo nominare la separazione delle carriere, ad auspicare che la giudice di Genova Paola Faggioni prenda le distanze dai suoi colleghi pm, suoi vicini di ufficio. Anche per evitare il sospetto di un’indagine tutta gestita da “toghe rosse”, con una forte connotazione politica contro il governatore eletto per ben due volte dal centrodestra. E dovrebbero essere i primi, a partire dal presidente Giuseppe Santalucia, a chiedersi che cosa di anomalo stia succedendo a Genova, a partire dalle date e le modalità dell’inchiesta. I tempi prima di tutto.
Nell’ordinanza con cui la giudice Paola Faggioni ha disposto la custodia cautelare per il presidente della Regione Liguria, si esplicitava il timore di un inquinamento corruttivo nelle elezioni europee dell’ 8 e 9 giugno. E già questo è parso singolare, dal momento che né Giovanni Toti né il suo movimento politico erano candidati. Il che significa che, visto anche il fatto che l’inchiesta era ormai durata quattro anni, aspettare un mese ancora, prima di mettere a soqquadro l’intera regione, sarebbe stato meno scenografico ma più sensato. Come dimostra il fatto che in questi giorni, subito dopo la scadenza elettorale, sono stati effettuati arresti che hanno riguardato anche pubblici amministratori in altre città, come Reggio Calabria e Caserta. Dopo, non prima delle elezioni. Si poteva fare, dunque.
Ormai l’argomento della ripetizione del reato (un punto dell’articolo 274 del codice di procedura penale che ha tra l’altro un forte sapore di incostituzionalità) non può più essere usato, per mantenere Toti ai domiciliari, dal momento che la prossima scadenza elettorale in Liguria sarà nell’autunno del 2025. O si teme che magari il presidente della Regione, una volta tornato sul suo scranno, vada a mettere il naso, che so, sul ballottaggio di Rapallo? Per tranquillità degli amici di Andrea Orlando, già pronto sui blocchi di partenza per far tornare la sinistra al governo della Liguria, sappiano che i candidati che si contendono la fascia tricolore a Rapallo, sono ambedue di centrodestra. Così, se per caso ci fossero davvero in circolazione le “toghe rosse”, avrebbero le armi spuntate.
Ma c’è un altro fattore che rende singolare l’inchiesta di Genova. Due giorni fa i militari del nucleo di polizia economico- finanziaria della guardia di finanza hanno effettuato un improvviso blitz negli uffici della segreteria generale della Regione. Si potrebbe supporre che esista qualche fatto nuovo, o qualche nuova deposizione di persone informate sui fatti interrogate nelle ultime ore e i cui verbali sono stati secretati. I nomi non sono segreti. Si tratta dei tre componenti del board portuale, Andrea La Mattina, Giorgio Carozzi e Rino Canavese, oltre alla dirigente del porto Cristina Tringali. Che cosa possono aver rivelato che già non si sapesse? E che cosa stavano cercando i finanzieri, qualche documento compromettente che l’incauto Toti, o chi per lui, potrebbe aver dimenticato in un cassetto? In ogni caso, con gli uffici ormai “ripuliti”, anche l’argomento dell’inquinamento delle prove, è caduto a terra come una pera matura.
E torniamo alla questione dei tempi. Che cosa hanno fatto negli scorsi quattro anni, a partire dalla data di inizio delle indagini, prima a La Spezia e poi a Genova, gli uomini della guardia di finanza e i pm, a partire dall’ubiquo Luca Monteverde, che stava in una città e poi nell’altra, che dirigevano le operazioni della polizia giudiziaria? Centinaia di intercettazioni, ecco che cosa hanno fatto. Una montagna di chiacchierate tra tutti i personaggi in commedia che ha prodotto il topolino di 74.000 euro, il prezzo della corruzione per le “pressioni” su un affare di miliardi, il rinnovo trentennale della concessione per il Terminal Rinfuse alla società composta dall’armatore Gianluigi Aponte, sentito due giorni fa dai magistrati, e l’imprenditore Aldo Spinelli, agli arresti domiciliari. Quattro anni di indagini e di ipotesi accusatorie, dunque, costruite con molta riflessiva calma. E al termine, cinque mesi di tempo che ha consentito a se stessa per decidere la gip Paola Faggioni sulle richieste di misure cautelari avanzate dalla procura dei Genova. Cinque mesi e non sei, quelli che avrebbero consentito ai cittadini liguri di andare a votare senza avere sulle spalle la zavorra di un presidente agli arresti. Va anche detto che, se qualcuno, gli esponenti delle opposizioni di sinistra in Regione per esempio, contava sul flop elettorale del centrodestra come conseguenza dell’inchiesta giudiziaria, è sicuramente rimasto deluso. L’affluenza alle urne in Liguria è stata superiore a quella nazionale e ha valicato la soglia del 50 per cento. Quanto ai partiti, pure in una terra storicamente di sinistra, il primo partito risulta essere quello di Giorgia Meloni. L’obiettivo politico è dunque fallito. E prolungare ancora lo stato di sospensione dalla carica del presidente equivarrebbe, come ha sottolineato l’avvocato Stefano Savi, a determinare una decadenza di fatto, il che non è previsto dalla legge. Spetta ora alla giudice Faggioni dimostrare due cose, liberando Giovanni Toti dalle manette domestiche.
La prima è che non è necessario tenere gli indagati in ceppi, per poter svolgere compiutamente la propria inchiesta. Del resto la legge prevede la privazione della libertà solo come ultima spiaggia. E la seconda è che il giudice può essere davvero terzo rispetto alle parti, anche in assenza della separazione delle carriere. Diversamente, il sospetto del processo politico resterà per sempre nell’aria. E anche sulla terra.