Li si potrebbe definire dettagli. Ma non lo sono. La legge attuativa sulla separazione delle carriere è in fase di elaborazione. Non c’è ancora un testo che possa definirsi almeno prossimo alla firma del guardasigilli Carlo Nordio. Ma l’Ufficio legislativo di via Arenula è già impegnato a realizzare una prima bozza. Soprattutto per mettere a fuoco tutte le variabili di alcuni aspetti delicati e inediti, a cominciare dalle modalità del sorteggio.

Com’è noto, la riforma costituzionale della magistratura ormai vicina all’ultimo sì del Parlamento prevede l’estrazione casuale per i laici e soprattutto per i togati sia nei due eventuali futuri Csm ( uno per i giudicanti, l’altro per i pm) sia nell’altra assemblea che la riforma istituirebbe, vale a dire l’Alta Corte disciplinare.

Si tratta di precisare dettagli, si diceva. Ma li si può definire tali solo al cospetto dell’imponente modifica costituzionale che sottrae al pm il controllo sulla carriera di colui, il giudice, di fronte al quale la Procura dovrebbe solo essere una parte al pari dell’avvocato. La rivoluzione copernicana nella magistratura non può, evidentemente, trascurare i meccanismi precisi con cui il nuovo disegno dovrebbe attuarsi. Non esisterebbe l’attuale Consiglio superiore unico, d’altronde, se nel 1958 il Parlamento non avesse approvato la legge 195, la cosiddetta disciplina istitutiva dell’organo che governa le toghe.

Nordio, com’è noto, si è “portato avanti col lavoro” anche per motivi di natura strettamente politica: sarebbe impensabile arrivare all’eventuale sigillo referendario, è cioè alla vittoria del Sì nella consultazione confermativa della riforma, senza avere già pronto almeno un canovaccio su come i due Csm dovrebbero funzionare. Altrimenti, al momento di eleggere i consiglieri superiori del prossimo quadriennio, cioè vero la fine del 2026, ci si troverebbe costretti a scegliere laici e togati con le regole attuali, cioè come se la separazione delle carriere non fosse mai stata approvata. Vorrebbe dire, tanto per intendersi, perpetrare, per altri quattro anni, il controllo delle correnti sull’elezione dei consiglieri magistrati.

Pur a fronte di una vittoria del Sì, uno smacco del genere vanificherebbe quasi del tutto il dividendo, in termini di consenso, a cui Giorgia Meloni ambisce. La premier punta sul ddl Nordio per poter rivendicare il merito di aver realizzato, da prima presidente di destra nella storia repubblicana, una riforma costituzionale così importante. Se Meloni si presentasse viceversa alle Politiche 2027 con il Csm unico e ancora correntizzato, l’effetto, in termini di marketing elettorale, sarebbe persino peggiore di una vittoria del No al referendum confermativo.

Ecco perché Nordio si è portato avanti. I margini per definire il testo da varare in Consiglio dei ministri e poi da approvare in Parlamento si riducono a una manciata di mesi: la consultazione popolare sulla riforma dovrebbe celebrarsi all’inizio della prossima primavera, e considerate la pausa estiva e la sessione di Bilancio, per arrivare a una legge sul funzionamento dei due nuovi Csm che sia già in vigore a fine 2026 servirà una performance da 3.000 siepi.

Ora, il punto è che non solo Nordio ma la stessa Meloni e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano si sono impegnati con l’attuale presidente Anm Cesare Parodi, nell’incontro del marzo scorso, a seguire il metodo del dialogo quanto meno sulla parte attuativa della riforma, cioè proprio sulla legge ordinaria che vede impegnati gli Uffici di Nordio. È vero che prima di andare in Consiglio dei ministri, il guardasigilli si confronterà con l’Associazione magistrati, ma è vero pure che se si arrivasse a quel confronto senza alcuna base su cui discutere, non la si finirebbe più.

Nel merito, per ora trapela davvero pochissimo. Si sa per certo che la legge attuativa del nuovo ordinamento imporrà un rigoroso equilibrio di genere sia nei due Csm sia nell’Alta Corte. Il resto lo si ricostruisce da alcuni segnali. Uno in particolare potrebbe ricavarsi dalle riflessioni svolte alla presentazione del libro di Renato Balduzzi e Gianluca Grasso “L’Alta Corte disciplinare. Pro e contro di una proposta che fa discutere”, organizzata dall’Associazione Bachelet lo scorso 24 settembre. In quella occasione sono emersi spunti evidentemente già all’attenzione della magistratura: Nordio non ha una bozza di articolato compiuta e conclusa, come detto, ma l’interlocuzione con l’Anm è già iniziata. Tra gli altri, è stato il consigliere del Capo dello Stato per gli Affari giuridici Daniele Cabras ad appuntare, nel proprio intervento, due aspetti: l’ipotesi che il sorteggio avvenga «previa dichiarazione di disponibilità», in modo da non trovarsi costretti a una complicata “graduatoria a scorrimento” per rimediare a eventuali rinunce; e poi la possibilità che il procuratore generale della Cassazione continui a vantare, dinanzi alla nuova Alta Corte, la titolarità dell’azione disciplinare anche nei confronti dei giudici. In effetti è improbabile che l’altro detentore della potestà inquirente, nella giustizia domestica delle toghe, vale a dire il ministro della Giustizia, possa acquisire una “esclusiva” relativamente ai magistrati giudicanti. È vero che residuerebbe una pur marginale forma di controllo del pm, del “primo pm d’Italia”, se vogliamo, nei confronti degli stessi giudici penali. Ma è anche vero che il vizio d’origine del correntismo, vero obiettivo delle carriere separate, non pare essere arrivato al punto da compromettere addirittura l’equilibrio e l’imparzialità del pg di Cassazione.