È definitivamente chiuso il caso Marco Corini: la procura generale di Milano ha infatti deciso di non impugnare la sentenza di assoluzione pronunciata il 28 marzo dalla Corte d’Appello nei confronti di Marzia Corini, l’anestesista accusata di aver ucciso, il 25 settembre 2015, il fratello, avvocato dei vip e malato terminale, ucciso secondo l’accusa con un’overdose del sedativo Midazolam. Nette le motivazioni della sentenza d’appello bis, che hanno chiarito i contorni di una vicenda intricatissima che ha tenuto impegnate le aule di giustizia per quasi decennio: «La “più verosimile delle ricostruzioni”, che vedrebbe Marzia Corini sorella- medico- omicida, è in realtà inverosimile, non vera e comunque smentita da solide prove scientifiche e da osservazioni dirette dei testimoni presenti», scriveva la Corte d’Appello. Per i giudici «il fatto non sussiste» e anzi, «la ricostruzione dell’omicidio è stata, inevitabilmente, affidata a presunzioni e verosimiglianza».

Ciò che è emerso durante il processo, infatti, racconta una realtà totalmente opposta, quella che forse spiega le lacrime dei giudici popolari dopo la lettura della sentenza: Corini difesa dagli avvocati Vittorio Manes e Giacomo Frazzitta ha solo «compiuto il suo dovere di medico» ed anzi è tornata nella casa familiare dalla quale era stata “espulsa” per pregiudizio - solo «per assicurare ad uno dei suoi componenti un fine vita il meno doloroso possibile». La presunta condotta omicidiaria, dunque «non può essere provata, semplicemente perché nessuna condotta omicida è mai stata posta in essere: le condizioni critiche in cui versava la mattina del 25 settembre Marco Valerio Corini - vittima, sì, ma della malattia terminale, non d’omicidio — palesavano sintomi acuti ( crisi respiratoria e forte dolore epigastrico) non trattabili che imponevano la sedazione palliativa; era dovere di ogni medico intervenire e la dottoressa Corini era un medico prima che una sorella», scrivono ancora i giudici.

Eppure il calvario di Marzia Corini, che non ha mai potuto vivere davvero il lutto, è durato nove anni, sei in meno rispetto alla pena inflitta in primo grado dal Tribunale di La Spezia, che l’aveva condannata a 15 anni. Nove lunghi anni che la donna, in un modo o nell’altro, ha scontato come una pena. «Ero ancora piegata da un dolore che mi spaccava il cuore. Erano passati 4 mesi da un lutto che non riuscivo ad accettare. Ora, dopo quasi 9 anni… è semplicemente finita - scrive la donna su Facebook -. Nessuno risponde di niente. Non ci sono commenti possibili».