«La “più verosimile delle ricostruzioni”, che vedrebbe Marzia Corini sorella-medico-omicida, è in realtà inverosimile, non vera e comunque smentita da solide prove scientifiche e da osservazioni dirette dei testimoni presenti». Sono lapidari i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano, che il 27 marzo scorso hanno assolto dall’accusa di omicidio volontario l’anestesista a processo con l’accusa di aver ucciso, il 25 settembre 2015, il fratello Marco Corini, avvocato dei vip e malato terminale, ucciso secondo l’accusa con un’overdose del sedativo Midazolam.

Per i giudici «il fatto non sussiste» e anzi, «la ricostruzione dell’omicidio è stata, inevitabilmente, affidata a presunzioni e verosimiglianza». Ciò che è emerso durante il processo, infatti, racconta una realtà totalmente opposta, quella che forse spiega le lacrime dei giudici popolari dopo la lettura della sentenza: Corini ha solo «compiuto il suo dovere di medico» ed anzi è tornata nella casa familiare - dalla quale era stata “espulsa” per pregiudizio - solo «per assicurare ad uno dei suoi componenti un fine vita il meno doloroso possibile».
La presunta condotta omicidiaria, dunque «non può essere provata, semplicemente perché nessuna condotta omicida è mai stata posta in essere: le condizioni critiche in cui versava la mattina del 25 settembre Marco Valerio Corini - vittima, sì, ma della malattia terminale, non d’omicidio — palesavano sintomi acuti (crisi respiratoria e forte dolore epigastrico) non trattabili che imponevano la sedazione palliativa; era dovere di ogni medico intervenire e la dottoressa Corini era un medico prima che una sorella», scrivono ancora i giudici.

Marzia Corini, dopo aver preso contatti con il palliativista e con gli oncologici, ha tentato, in un primo momento, di trattare il fratello somministrandogli ossigeno, cortisone e morfina senza, però, alcun beneficio e solo a questo punto, dopo aver consultato un collega, «somministrò al fratello Marco 1,12 mg di Midazolam in endovena per assopirlo ed impedirgli di percepire la severa difficoltà respiratoria (quell’angosciante sensazione di morire che i non-medici chiamano fame d’aria) che non poteva essere altrimenti risolta». Insomma, Marco Corini «stava morendo, com’è risultato evidente a tutti i presenti che hanno percepito un periodo di respiro superficiale, poi bradipnea, poi gasping».

E la sorella ha dunque «compiuto il suo dovere di medico e nulla avrebbe fatto di più o di diverso il dottor Mario Bregnocchi se fosse stato presente: il che, sia detto incidentalmente senza valenza di biasimo per alcuno, sarebbe stato oltremodo opportuno — per non dire doveroso — e non certo per impedire un fantomatico delitto ma per il carico di emotività e stress psicologico sobbarcatosi da chi, professionista sì, ma anche sorella, tornava in famiglia, dopo quindici anni di rancorosi silenzi, solo per assicurare ad uno dei suoi componenti un fine vita il meno doloroso possibile. Carico di emotività puntualmente, ed evidentemente non a caso, esploso nella confessione telefonica» considerata la pistola fumante del delitto.

Ovvero la dolorosa telefonata durante la quale dichiarò - stremata dagli eventi - ad un’amica «lui è morto perché io l’ho sedato». Qualunque potesse essere il movente di Marzia Corini - economico o meno -, «non è dato di comprendere perché mai l’imputata avrebbe dovuto praticare la, impropriamente detta, iniezione letale quando sarebbe bastato attendere qualche ora perché tutto si compisse da sé», scrivono ancora i giudici. A tacere, poi, «dell’inspiegabile dabbenaggine di un agente che, avendo maturato un proposito criminoso omicidiario, essendo medico e potendo disporre di farmaci letali (irrintracciabili in una autopsia che mai vi sarebbe stata in un paziente oncologico, devastato dalla malattia), non agisce subdolamente, per esempio ponendo al capezzale del malato sostanze venefiche mascherate da farmaci, facendoli iniettare da altri, sempre esemplificando, alla giovane ed inesperta Isabò (l’allora compagna di Marco Corini, ndr), che non distingueva una flebo da una siringa, così procacciandosi un formidabile alibi ed impunità. Né agisce personalmente, allorquando si trova sola col fratello. No. Attende che in casa, attorno al paziente morente», in presenza di altre otto persone. Una scelta illogica e assurda, secondo i giudici. Per i quali, dunque, non esiste nessuna «mano esogena e criminale», ma solo «l’incurabile morbo» di Marco Corini. Insomma, «tutte le prove raccolte hanno avuto epifania opposta a quella che dovrebbe sorreggere l’imputazione di omicidio».

Eppure il calvario di Marzia Corini, che non ha mai potuto vivere davvero il lutto, è durato nove anni, sei in meno rispetto alla pena inflitta in primo grado dal Tribunale di La Spezia, che l’aveva condannata a 15 anni. Nove lunghi anni che la donna, in un modo o nell’altro, ha scontato come una pena. «È il 2024 e dovrò attendere 45 giorni per sapere se il procuratore generale di Milano farà un ulteriore ricorso alla Corte Suprema di Cassazione - ha scritto Corini sul proprio profilo Facebook dopo il deposito delle motivazioni -. E intanto la vita… la mia vita… passa».

Per Vittorio Manes, difensore di Corini assieme all’avvocato Giacomo Frazzitta, «è una sentenza che colpisce per la profonda comprensione umana del gesto compiuto da Marzia Corini, oltre che per il rigore giuridico con cui si ricostruiscono i fatti e le prove. La Corte d’Assise d’Appello di Milano - come già la Corte d’Appello genovese - ha confermato con straordinaria convinzione e chiarezza che Marzia Corini, nel somministrare la dose di farmaco che attivava la sedazione palliativa, ha compiuto nulla più che un atto di solidarietà umana, coraggioso e doveroso, per evitare al fratello le immani sofferenze che avrebbe patito nella fase terminale della gravissima malattia che lo affliggeva e che ormai lo stava conducendo al congedo dalla vita».