È un crinale molto scosceso. E il rischio che tutto precipiti non può sfuggire a un presidente attento al decoro istituzionale qual è Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato sa che nei prossimi mesi il dibattito pubblico sarà sottoposto a una delle prove di tenuta più estreme degli ultimi anni: la campagna referendaria sulla separazione delle carriere. Una sfida che sublimerà, in un certo senso, un quarto di secolo, trent’anni addirittura di conflitti fra politica e magistrati.

Ne sarà l’epilogo, la battaglia finale, l’appendice parossistica. Non perché sia scritto tra le pieghe della riforma, che debba essere così: modificare l’ordinamento giudiziario, in fin dei conti, è sì una regolazione “pesante”, ma non al punto da legittimare esiti “sanguinari”. Che tra i poteri dello Stato, in ogni caso, non dovrebbero mai verificarsi.

Ciononostante, il pericolo di deragliamento è forte. Riguarda senz’altro la politica, che ha spesso fatto ricorso a toni scomposti nei confronti dei giudici, in particolare davanti a decisioni sfavorevoli in materie come l’immigrazione e il diritto d’asilo. Ma la tentazione di far saltare, virtualmente, il tavolo della dialettica istituzionale incombe anche sulla magistratura. E tre giorni fa, quando il presidente della Repubblica si è rivolto a giudici e pm freschi vincitori di concorso, e si è soffermato su quel principio, indiscutibile, per cui «nessun potere dello Stato -nessuno- è immune da vincoli e controlli», aveva sì un obiettivo immediato, richiamare le giovani toghe al peso delle responsabilità connesse alla funzione. Ma è difficile escludere che Mattarella prefigurasse davanti a sé anche quello scenario bellicista verso cui partiti e magistratura sembrano già proiettati: il conflitto aperto e totalizzante sulla riforma, il ricorso a ogni possibile strumento polemico per indebolire l’immagine e le ragioni della controparte.

Ed è così: l’Anm non è fuori pericolo. Lo scivolamento verso l’eccesso, che pregiudicherebbe l’immagine di “imparzialità” richiamata dal Capo dello Stato mercoledì scorso nell’incontro con le toghe “di prima nomina”, è appena dietro l’angolo. Mattarella d’altronde non può far altro che richiamare tutte le parti a princìpi generali, di rispetto, di decoro istituzionale, di salvaguardia dell’equilibrio tra i poteri. Nient’altro. Il resto dipenderà dal grado di ragionevolezza dei protagonisti. Di Carlo Nordio, di Giorgia Meloni, dei leader del centrodestra. E dell’Anm, del suo presidente Cesare Parodi, dei vertici delle correnti, di alcune figure chiave della magistratura, più esposte, più visibili e più “influenti” per una serie di motivi.

Basti pensare non solo e non tanto ai vertici della Suprema Corte – sulla compostezza granitica della prima presidente Margherita Cassano e del pg di Cassazione Pietro Gaeta, Mattarella, per dire, metterebbe due mani sul fuoco, non foss’altro per aver apprezzato la loro sensibilità anche di componenti del Csm – ma soprattutto a procuratori capo molto esposti mediaticamente come Nicola Gratteri, solo per citare l’esempio più facile. Fin lì, d’altra parte, i richiami del Colle non possono spingersi. Ci si deve limitare all’auspicio che ognuno resti nel proprio pur ampio spazio di espressione.

È chiaro che a Mattarella sta a cuore l’immagine della magistratura in quanto ordine che garantisce i diritti, che recepisce e interpreta l’affidamento del cittadino nello Stato. Il deragliamento di un leader Anm, in altre parole, sarebbe più doloroso, per l’immagine complessiva delle istituzioni, di un’intemerata di ministri esuberanti come Matteo Salvini o di parlamentari notoriamente “aggressivi” con la magistratura come Maurizio Gasparri. Anche perché l’inquilino del Colle sa bene quale grado incontrollabile di strumentalizzazione potrebbe scatenare, sul fronte politico, un pur occasionale impennata delle controparte “giudiziaria”.

Non tutto è prevedibile, non tutto può essere evitato. Ma in un quadro del genere, il tratto e il profilo del presidente Anm Parodi sono un elemento rassicurante. Sebbene sia arrivato al vertice del “sindacato” anche in virtù di una carambola involontaria (al di là dell’indiscussa credibilità personale), il pm che ha raccolto il testimone di Giuseppe Santalucia ha la capacità di avvolgere ogni tensione “politica” in una sorta di sereno e persino ingenuo disincanto, che finisce per disarmare un po’ anche gli avversari. Ed è indiscutibile, anzi risaputo che un’altra figura chiave della contesa governo-magistrati come il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano confidi molto in Parodi come interlocutore aperto, moderato, ragionevole.

Può dirsi lo stesso di Nordio. E Meloni, che pure non sarà il “centravanti di sfondamento” della maggioranza, nella campagna referendaria sulle “carriere”, ha capito a propria volta che il nuovo vertice dell’Associazione magistrati non è una “fonte immediata di pericolo”. I rischi sono, per Palazzo Chigi, nelle possibili, inopinate uscite di quegli esponenti dell’associazionismo giudiziario che, come Marco Patarnello, anche lui eletto nel parlamentino dell’Anm, possono spingersi ad additare la premier come una minaccia in quanto “priva di carichi pendenti”, per sinterizzare la tesi del sostituto pg di Cassazione.

Ecco: avversari così sono pericolosi non solo perché sgradevoli per una presidente del Consiglio, ma soprattutto perché possono far scattare la scintilla capace di trasformare uno scontro già acceso in un’ordalia. Questo, certo, Mattarella lo sa benissimo. E spera proprio di non dover assumere le vesti di un casco blu costretto a difendere la democrazia dai suoi stessi protagonisti.