In un recente articolo comparso su Lucy.Sulla cultura dell’aprile scorso ”le motivazioni della sentenza Turetta e il femminismo punitivo” la sociologa Valeria Verdolini si poneva questa domanda: «Perché chiediamo al diritto penale di risolvere problemi di ordine culturale?»

Aggiungo: perché lo chiediamo, per giunta, ad un diritto penale vendicativo, bellico cui affidiamo in via esclusiva il compito di proteggerci da ogni male? È la domanda delle domande che interroga, da anni ormai, chiunque abbia a cuore il mantenimento di un cordone di protezione per i principi costituzionali.

Lo ha scritto molto bene Maria Luisa Boccia su quadernitre “critica al panpenalismo”: «Governare con la paura, è questo il nocciolo del patto tra il potere (legittimato all’uso del monopolio della forza) e governati/e (garantiti/e nella loro sicurezza). In società attraversate da crescenti disuguaglianze, con un legame sociale indebolito, serve spostare rabbia e sofferenza dalle cause reali alla minaccia dell’altro.

Il racconto mediatico della cronaca quotidiana alimenta l’immaginario populista della tolleranza zero: basta con gli sconti di pena, le attenuanti, le misure alternative, gli indulti, le amnistie. Allarghiamo l’area del crimine e della sicurezza: più reati, sentenze più severe, pene più alte e certe, più carcere, più ergastolo». Il panpenalismo è vivo e vegeto e lascia in bocca l’amara consapevolezza dell’arretramento della politica di fronte ai grandi interrogativi della contemporaneità. Uno di questi, per restare in tema, è: come superare l’ordine egemonico del dominio patriarcale?

Nel migliore dei mondi possibili avremmo sentito dire: «Agendo sul piano sociale, sull’irrobustimento dell’empowerment femminile, sulla parità salariale, sui programmi educativi nelle scuole, sulla decostruzione del maschilismo tossico». Quello che, invece, sentiamo dire, è: col carcere duro, con la pena massima, con una stretta formidabile sulle garanzie processuali. Si potrebbe obiettare, anzi molte obiettano: nel migliore dei mondi possibili, però, le donne non muoiono per mano di uomo. Ed è vero. Hanno ragione. Ma serve l’ergastolo? Niente affatto.

Eppure, il 23 luglio, il Senato ha approvato il ddl sul femminicidio che, per l’appunto, introduce un’autonoma fattispecie di reato punita con la pena massima. Il sì, ce lo potevamo immaginare, è stato bipartisan. Del resto, il piatto era troppo ghiotto. Correre dietro alla destra sulla politica criminale è ormai un evergreen della nostra sinistra. Quando si tratta di aumentare reati e pene, in nome di una sicurezza pubblica che non ha niente a che fare con la sicurezza sociale, tutti scalpitano ad arrivare per primi. Va detto che in effetti i risultati elettorali, purtroppo, continuano a premiare questo atteggiamento. Ed allora, a furia di stare dalla parte “controintuitiva” del pensiero (come va di moda dire oggi) si finisce con lo stancarsi.

E davvero repetita iuvant? Se non è bastato neppure l’appello delle docenti universitarie – ottanta! - che hanno gridato allo scandalo di un testo incostituzionale con un documento che metteva a nudo tutta l’ipocrisia del ricorso al penale massimo? Se non sono bastate le critiche mosse da un fronte compatto di penaliste, di sociologhe, di filosofe, di femministe? Il dado è tratto: non ci vorrà molto perché questa gestazione estiva partorisca il mostro di un testo palesemente sbagliato.

Eppure, occorre ripeterci ancora e ancora, fino a sgolarsi, almeno per promuovere una contropropaganda. Ecco lo slogan: il deciso NO alla legge sul femminicidio spiegato punto per punto.

Uno: ci fanno credere che con la nuova legge uccidere una donna diventerà finalmente reato punito con l’ergastolo: falso. L’ergastolo esiste già (pensiamo alla condanna di Turetta, di Impagniatiello). E allora perché incaponirsi con un nuovo reato? Semplicemente per dare l’illusione che si abbiano a cuore le donne che, al contrario, continuano a morire nonostante gli aumenti vertiginosi delle pene di questi ultimi anni.

Due: Si sostiene che il fenomeno vada nominato. Femminicidio. Ma non basta che entri nel lessico corrente (ci sono voluti quasi 50 anni perché ciò accadesse, da quando lo ha fatto, nel 1976, Diana Russel). Occorre nominarlo nel codice penale. L’obiettivo vero, quindi, non è culturale. Si vogliono educare i giudici a riconoscerlo limitandone il più possibile la valutazione (sia mai che qualche attenuante scappasse dalla penna) come se i femminicidi oggi restassero tutti impuniti sotto l’etichetta del 575 aggravato, il “vecchio” omicidio per intendersi. Dunque: non interessa dare esecuzione alla regola del “se mi nomini esisto” – che vale per la declinazione di un linguaggio rispettoso dei generi -. Piuttosto (si legge nel libro bianco per la formazione della violenza di genere a cura della ministra Roccella, manifesto politico che ha anticipato la nuova legge) lo si vuole nominare come si è fatto con la mafia. In sostanza si intende legittimare, mediante l’introduzione del nuovo reato, il c.d. diritto penale d’eccezione, o bellico, un nuovo binario per tipologia di vittima secondo un rovesciamento di prospettiva. È il diritto penale a fare da volano al cambiamento culturale, non, come dovrebbe essere, il contrario. Al bando l’extrema ratio, allora (quel principio liberale secondo cui il diritto penale interviene per ultimo, quando l’ordinamento non è in grado di affrontare un fenomeno con altri strumenti).

Siamo in guerra, il pugno è duro, tutto vale e tutto si tiene. Non è una novità. Codice Rosso e Legge Roccella (che hanno inasprito pene e ridotto al lumicino le garanzie processuali) rispondevano esattamente a questa logica. Sono morte meno donne da allora? Niente affatto. Vogliamo nominare più correttamente l’omicidio? Riscriviamo il reato e diciamo che chiunque uccide una persona (non un uomo come è scritto oggi) è punito etc...

Tre: un po’ di sincerità, per favore. Davvero crediamo alla favola che un uomo violento si lasci intimidire dalla minaccia della sanzione massima? È notizia di questi giorni che a Pisa un uomo ha ucciso la moglie e si è ucciso. Notizia che una stampa poco attenta ha liquidato come tragedia della depressione (quella di lui, del femminicida: lo possiamo usare questo termine, lo dobbiamo usare, non c’è bisogno, però, di costruirci attorno un reato). È talmente spaventoso che l’uomo della porta accanto possa uccidere la propria compagna che nell’immediato si è portati, sbagliando, a ricercarne origini patologiche, quel qualcosa che non va, che spiega l’anormalità del gesto e ci fa sentire al sicuro. Ma ormai lo sappiamo. Il femminicidio è espressione di un dominio maschile sul corpo, sulla vita, sulla libertà delle donne. Dunque, non è un’emergenza di oggi, ma una piaga strutturale. E allora perché insistere con la solita escalation di repressione penale ad invarianza finanziaria? Il numero degli uomini che dopo aver ucciso una donna si tolgono la vita è altissimo anche se non disponiamo di statistiche certe. Serve l’ergastolo? Niente affatto. È una legge ipocrita? Sì.

Quattro: il nuovo 577 bis punisce chi uccide una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione, di controllo, di possesso o di dominio, in relazione al suo rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali. Domanda: e se ad essere ucciso per lo stesso scopo è una persona che ancora non ha ultimato la transizione? Niente da fare. Al prossimo giro. Inventeranno un nuovo reato anche per questo, forse non il governo Meloni, ma chissà, prima o poi. Non oggi. La verità è che uccidere una donna non può essere considerato più grave che uccidere una qualsiasi altra persona che si identifichi con un genere diverso. Lo impone il principio di uguaglianza (art. 3 Costituzione).

Cinque: la giustizia penale diviene affare privato. La parola della pubblica accusa non basta più: è sottoposta al placet della vittima, persino sul progetto di pena concordato con l’imputato. La sua è la parola che pesa. La nostra Costituzione, però, impedisce di applicare l’occhio per occhio. Per questo l’istanza di punizione non può che essere di esclusiva mano pubblica.

Eppure. To be continued…