Era il 22 maggio 2025 quando Giorgia Meloni e Mette Frederiksen, la premier danese, decidevano di mettere nero su bianco un pensiero che da tempo circolava nei corridoi di alcuni governi conservatori europei. Una lettera aperta, firmata da nove leader - Italia, Danimarca, Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia che suonava come una dichiarazione di guerra alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il documento parte con tutte le cautele del caso. Si parla di valori europei, Stato di diritto, dignità dell’individuo. Ma poi arriva il punto: «Quello che una volta era giusto potrebbe non essere la risposta di domani». È questa la frase chiave, quella che tradisce l’intenzione vera. Perché dietro le parole educate, dietro i richiami alla democrazia, c’è un messaggio piuttosto chiaro: la Corte di Strasburgo ci sta mettendo i bastoni tra le ruote. I nove leader sostengono che il mondo è cambiato dai tempi in cui la Convenzione europea dei diritti dell’uomo fu concepita «dalle ceneri delle grandi guerre».

La migrazione irregolare degli ultimi decenni avrebbe portato in Europa persone che non si integrano, che vivono in società parallele, che commettono crimini. E qui arriva l’accusa diretta: la Corte europea avrebbe interpretato la Convenzione in modo troppo estensivo rispetto alle intenzioni originali, limitando la capacità dei governi di prendere decisioni politiche nelle loro democrazie.

Gli esempi che fanno sono emblematici. Parlano di casi riguardanti l’espulsione di stranieri criminali dove, secondo loro, l’interpretazione della Convenzione ha finito per «proteggere le persone sbagliate» e ha posto troppe limitazioni alla capacità degli Stati di decidere chi espellere dai loro territori. La sicurezza delle vittime e della maggioranza dei cittadini rispettosi della legge, scrivono, «dovrebbe avere la precedenza su altre considerazioni». Non si tratta solo di espulsioni. I firmatari chiedono più libertà nel decidere come le autorità possano tenere traccia degli stranieri criminali che non possono essere deportati. E vogliono poter adottare misure efficaci contro gli Stati ostili che «strumentalizzano i migranti ai nostri confini».

Ma c’è un problema di fondo in questa narrazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo non è un organismo politico che decide a piacimento. È un tribunale che interpreta una Convenzione ratificata da tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa. Quando i giudici di Strasburgo stabiliscono che un’espulsione viola l’articolo 3 della Convenzione - quello che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti - o l’articolo 8 sul diritto alla vita privata e familiare, non lo fanno per capriccio. Lo fanno applicando standard giuridici che quegli stessi Stati si sono impegnati a rispettare.

La questione vera è un’altra: alcuni governi vorrebbero avere mano libera nell’espellere chi considerano indesiderabili, senza che un tribunale internazionale possa metterci il naso. È quello che potremmo chiamare sovranismo giudiziario: l’idea che la sovranità nazionale (e quindi anche giudiziaria) debba prevalere sugli obblighi internazionali in materia di diritti umani. Il problema è che questo approccio mina alle fondamenta il sistema di protezione dei diritti umani costruito dopo la Seconda guerra mondiale. Se ogni Stato può decidere quando applicare la Convenzione e quando no, sulla base delle proprie emergenze nazionali, a cosa serve avere una Convenzione?

LA RISPOSTA DI STRASBURGO

La risposta del Consiglio d’Europa non si è fatta attendere. Il 10 dicembre scorso, a Strasburgo, si è tenuta una conferenza ministeriale informale. E qui è arrivata la doccia fredda per i promotori della lettera. Le conclusioni della conferenza sono un capolavoro di diplomazia, ma il messaggio politico è inequivocabile. I ministri partecipanti hanno riaffermato «il loro profondo e duraturo impegno» verso la Convenzione europea dei diritti dell’uo mo e la Corte europea, come già fatto nella Dichiarazione di Reykjavík del 2023.

Hanno sottolineato «la necessità di preservare l’integrità del sistema della Convenzione come pilastro della protezione dei diritti umani in Europa» e il ruolo centrale della Convenzione «nel mantenimento e nella promozione della sicurezza democratica e della pace in tutto il continente». E poi arriva il passaggio che più brucia per i firmatari della lettera: la riaffermazione «del forte impegno a rispettare e mantenere lo Stato di diritto a livello nazionale e internazionale, anche attraverso il rispetto dell’indi pendenza, dell’imparzialità e dell’autorità della Corte», e «l’obbligo incondizionato degli Stati di rispettare le sentenze definitive della Corte in qualsiasi caso in cui siano parti».

Certo, il documento finale prende atto delle preoccupazioni sulla migrazione irregolare. Riconosce le sfide poste dalla strumentalizzazione della migrazione, dal traffico di migranti, dalla tratta di esseri umani. Ricorda la responsabilità fondamentale dei governi di garantire la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, e il loro diritto sovrano di proteggere i confini. Ma tutto questo viene inquadrato nel rispetto senza discriminazioni «dei valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto». Non c’è spazio per interpretare la carta della Convenzione.

Le decisioni concrete prese dai ministri della Giustizia dei 46 Stati membri vanno in una direzione chiara. Hanno invitato il Comitato dei Ministri a preparare un progetto di dichiarazione politica che ribadisca l’obbligo di garantire l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà previsti dalla Convenzione a tutti coloro che si trovano sotto la giurisdizione degli Stati membri. Hanno anche sostenuto l’elaborazione di una nuova raccomandazione per scoraggiare e combattere il traffico di migranti, «nel pieno rispetto dei loro diritti umani». In sostanza, il Consiglio d’Europa ha detto: parliamone, affrontiamo le questioni concrete, cerchiamo soluzioni. Ma sempre all’in terno del quadro della Convenzione e del rispetto della Corte. Nessuno spazio per il “sovranismo giudiziario”.

Il risultato di questa partita è significativo. L’iniziativa italiana e danese, che voleva aprire un dibattito sulla necessità di limitare il potere della Corte di Strasburgo, si è trasformata in una riaffermazione solenne dei principi della Convenzione. La questione è stata portata all’interno del dialogo politico tra gli Stati membri, come volevano i promotori della lettera, ma preservando l’indipendenza della Corte da pressioni indebite. La Corte continuerà a essere l’unica custode della Convenzione.

C’è una lezione in tutto questo. I diritti umani non sono optional che si possono attivare o disattivare a seconda delle convenienze politiche del momento. Sono standard minimi che le democrazie si impegnano a rispettare, anche quando è scomodo. Forse soprattutto quando è scomodo. Il governo Meloni ha il diritto di pensare che alcune sentenze della Corte europea siano sbagliate o eccessive. Ha il diritto di criticarle pubblicamente e di cercare alleati per promuovere un dibattito. Ma non ha il diritto di mettere in discussione l’autorità della Corte o di suggerire che gli Stati possano scegliere quali sentenze rispettare e quali no. Perché se questo principio passasse, non saremmo più in una comunità di Stati sottoposti allo Stato di diritto. Saremmo in una giungla dove ognuno fa quello che vuole, nascondendosi dietro la bandiera della sovranità nazionale. E sappiamo bene dove porta quella strada.