Lo spettro del giustizialismo serpeggia tra le fila del rinnovato Partito democratico e scava un solco sempre più profondo tra il nuovo corso zingarettiano e la galassia renziana. A scoperchiare il vaso di Pandora, le dimissioni della presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, indagata con l’accusa di concorso in abuso d’ufficio per una partita di nomine alla Asl regionale.

Agli arresti sono finiti invece l’ex segretario regionale del Pd, Gianpiero Bocci e l’ex assessore alla Sanità, Luca Barberini, insieme ad altri due funzionari. Un terremoto di proporzioni significative in una regione storicamente “rossa”, dove Marini governa al secondo mandato, con una Lega che aumenta i consensi nei sondaggi di ora in ora.

Eppure, la governatrice ha sempre ripetuto, sin da quando il suo nome è stato tirato in ballo, di essere tranquilla e di poter «uscire a testa alta». Le rassicurazioni, tuttavia, non sono bastate e dopo appena 48 ore è partita la moral suasion di partito per le sue dimissioni, sulla scia della lettera del segretario Zingaretti al Repubblica, in cui parlava di garantismo sì, ma anche di necessità di vigilare di più sulla selezione della classe dirigente dem. Una stoccata indiretta ma chiara, che ha toccato direttamente Marini e indirettamente lo stesso Renzi, a cui la stessa Marini fa riferimento ( che le ha mandato un sms di sostegno nel giorno della notizia dell’inchiesta).

Lei, l’ormai ex governatrice, ha scelto la strada del taglio netto: dimissioni immediate, «per essere libera di dimostrare la mia innocenza», ma non certo silenziose. Ed è stata proprio lei a pronunciare la parola giustizialismo. «Mi sono dimessa e l’ho fatto per me, per difendermi con libertà, ma il partito è malato di giustizialismo». Accusa pesante, corredata dalla chiosa sul fatto che lo stesso Pd, in passato, abbia esercitato la presunzione di innocenza invece per i colleghi uomini, indagati di reati anche più gravi. «La serenità mi viene dalla mia coscienza», ha ripetuto con amarezza all’Ansa. Dalla sua, Marini ha rivendicato i vent’anni di amministrazione specchiata ( dieci in comune e dieci in regione) e la labilità delle accuse mosse a suo carico: per ora solo l’iscrizione a registro delle notizie di reato ( insieme ad altre 38 persone) e un avviso di garanzia per una perquisizione, oltre a pezzi di intercettazioni. Per i magistrati, che non la hanno ancora sentita, sarebbe proprio in quelle telefonate la prova dell’implicazione di Marini nella rete che pilotava i concorsi.

I reati ipotizzati, secondo la procura di Perugia, sono «rivelazione di segreti d’ufficio, falso ideologico in atto pubblico e abuso d’ufficio compiuti mediante la comunicazione a terzi interessati delle tracce d’esame, e inoltre indirizzando la Commissione in ordine alle valutazioni da assegnare ai candidati» e «alterazione della procedura concorsuale consistita nella manipolazione dell’esito del sorteggio dei componenti della commissione esaminatrice» in almeno otto concorsi e trenta assunzioni. A fondamento dell’indagine, in particolare, l’utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali, tra le quali quelle in cui la presidente Marini ( in un audio frammentario) sembrerebbe ricevere da Duca i test per i concorsi, da poi consegnare a una candidata da favorire (“quella della Marini”, secondo le intercettazioni tra Duca e un funzionario), che poi risulta vincitrice. Proprio questi frammenti, però, sono bastati come indizi di reato e hanno permesso agli inquirenti di costruire l’accusa, indicando l’esistenza di una cupola politica che inquinava i concorsi pubblici. Ipotesi di reato tutte da provare e ancora nella fase delle indagini preliminari, ma - come in altri casi di amministratori incorsi nei controlli della magistratura - sufficienti a mettere in moto un giudizio più severo ancorchè sommario dell’opinione pubblica e politica.

Ora il commissario del Pd umbro è Walter Verini, che sarebbe stato anche messaggero di Zingaretti nel consigliare le scelte di Marini. Ha parlato di «gesto doloroso ma coerente» e di «partito che doveva arrivare prima della magistratura», invitando i pm «ad andare fino in fondo».

E allora da ieri la parola “giustizialismo” rimbalza come una pallina impazzita di bocca in bocca nel Pd: garantisti con gli altri ( tra le prime a chiedere le dimissioni di Marini, la vicepresidente del partito Paola De Micheli, che si è fregiata spesso di non aver mai chiesto l’addio della sindaca di Roma, Virginia Raggi), giustizialisti coi propri. Il problema etico c’è, ma c’è anche quello politico: a prescindere dal merito dell’inchiesta, la gogna mediatica messa in moto dai grillini e dai leghisti ( Salvini era a Perugia già ieri e ha puntato a lanciare già la campagna per le elezioni regionali anticipate) ha spaventato i vertici del Nazareno, che ne hanno percepito tutta la portata distruttrice, dopo il buon lavoro negli ultimi mesi per risalire nei sondaggi e insediare proprio il Movimento 5 Stelle. E allora, meglio una presidente di Regione a fine mandato in meno che un problema mediatico da gestire e contenere proprio durante la campagna elettorale per le Europee. Marini capisce e si fa da parte, ma punta il dito - se non direttamente contro il segretario Zingaretti - contro il modus con cui i dem affrontano qualsiasi vicenda giudiziaria. «Dovevo sottrarmi alla gogna mediatica alla quale sono stata sottoposta, come se il fulcro di tutto fossi io», ha ripetuto Marini, con un auspicio per il futuro che dovrebbe suonare sibillino alle orecchie del segretario: «Spero di non diventare il Marino di Zingaretti». Come a dire che il problema profondo investe l’anima stessa del partito, combattuto tra l’intransigenza similgrillina da campagna elettorale e i proclami di garantismo che però non trovano rispondenza nelle scelte concrete. Nonostante l’esperienza insegni - il cagliaritano Antonello Soru ne è l’ultima dimostrazione in ordine di tempo - come spesso le certezze delle indagini preliminari siano scritte sulla sabbia.