Nella seduta dell’Assemblea costituente del 3 dicembre 1947 ( in A. C., pag. 4327) si giocò una disputa che, per molti decenni a seguire, ha incuriosito e arrovellato i soli costituzionalisti. Si discuteva del potere del presidente della Repubblica di non procedere alla promulgazione di una legge costituzionale, così come accade per le leggi ordinarie (articolo 74). Ritirato l’emendamento dell’on. Preti che negava espressamente il rinvio delle fonti costituzionali, venne invece accolta la proposta dell’on. Perassi di rimettere alla prassi la soluzione della delicata questione.

Naturalmente non vi sono precedenti, se non la lettera, inviata il 22 ottobre 2010 da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione affari costituzionali del Senato e, per conoscenza, ai presidenti dei due rami dell'Assemblea, in cui il presidente della Repubblica condensava tutte le proprie perplessità in ordine ad alcuni snodi della proposta di legge costituzionale 2180/ S (il cd. lodo Alfano costituzionale), variamente tendenti ad alterare lo status del capo dello Stato.

Per il resto ci si è sempre affidati alla penetrante moral suasion che, come noto, il Colle esercita sui provvedimenti legislativi di origine governativa al momento del loro inoltro alle Camere.

Una nota praevia che non deve considerarsi eccentrica e che, piuttosto, molto potrebbe avere a che vedere con la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che è al giro di boa per la seconda lettura in Parlamento.

Il Quirinale, come presidente del Csm, e quale destinatario di una parte non marginale del disegno di legge costituzionale in discussione che prevede, anche, lo sdoppiamento e il mero sorteggio dei componenti dell’organo di autogoverno ha – come dire – necessariamente assunto un profilo prudente e attento per non essere coinvolto in un dibattito che si profila al calor bianco in vista del previsto referendum confermativo; il cui epilogo è percepito come la madre di tutte le battaglie nel preteso regolamento dei conti tra magistratura e politica.

Eppure.

Eppure, potrebbe restare sullo sfondo, come un incubo per la maggioranza che sostiene la riforma, la possibilità che il Quirinale possa azzerare l’intero iter parlamentare e imporre ai sensi dell’articolo 74 una “seconda” doppia lettura alle Camere, iniziativa questa che escluderebbe una conclusione utile del percorso parlamentare ossia l’approvazione della riforma entro la legislatura in corso.

Non si intende, ovviamente, “tirare per la giacchetta” la massima autorità costituzionale del paese, ma solo considerare alcuni punti della questione che anche l’avvocatura tutta dovrebbe attentamente prendere in considerazione proprio a procedere dalla collocazione che il disegno di legge assegna al presidente della Repubblica nel nuovo assetto della giurisdizione. Uno. E’ certo che la locuzione “separazione delle carriere” sia una vera e propria truffa delle etichette; la riforma non separa le carriere dei magistrati, ma come autorevolmente quanto solitariamente prospettato ( F. Adornato) realizza una netta separazione dei poteri, spacchettando il potere giudiziario in un potere requirente e in un potere giudicante. La nota geometria dei poteri dello Stato vedrebbe il sorgere di un nuovo potere costituzionale tutto organizzato esclusivamente intorno alla funzione inquirente e requirente.

Due. Come questo enorme upgrading costituzionale si renda compatibile con la parità delle parti processuali ai sensi dell’articolo 111 Cost. resta un mistero. Mentre l’avvocatura non ha alcun segno tangibile ed esplicito di riconoscimento nella Carta costituzionale, il pubblico ministero si vedrebbe conferita una dignitas e, quindi, una auctoritas che la Costituzione vigente non solo non ha previsto, ma non neppure voluto.

Attualmente, infatti, l’articolo 107 si limita a prevedere uno status del pubblico ministero, dal punto di vista delle guarentigie costituzionali, non perfettamente speculare a quello del giudice ( «Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite

nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario» ) con una copertura “debole” della propria autonomia e indipendenza; e sebbene l’articolo 104 reciti che l’intera «magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», l’articolo 101 che reca l’introibo di principio alle norme sulla giurisdizionale - non a caso puntualizza che «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» e non il pubblico ministero.

La riforma Nordio, probabilmente nel tentativo di esorcizzare ogni dubbio e ogni sospetto circa un’eventuale soggezione del pubblico ministero al potere esecutivo, ha esaltato il potere inquirente sino al punto da collocarlo a fianco del potere giudicante («La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente» ), in una simmetria che non prevede eccezioni di sorta; al punto che per entrambi i Csm di nuovo conio si è previsto che al loro vertice vi sia il presidente della Repubblica.

Questa collocazione, sia detto con la necessaria franchezza, rende allo stato strumentali e inconsistenti le preoccupazioni di quanti tratteggiano scenari “gelliani” nell’intento della maggioranza; è chiaro che sia costituzionalmente improponibile che la presidenza della Repubblica si possa trovare al vertice di un ordine inquirente controllato dall’esecutivo, poiché indirettamente questo controllo si estenderebbe sino al Quirinale dimidiato e svilito proprio perché posto a capo di una corporazione di funzionari sostanzialmente amministrativi dipendenti dal Governo.

Tre. E’ vero, però, che anche dando corso alla ( nuova) piena autonomia e indipendenza del potere requirente, la riforma Nordio colloca la presidenza della Repubblica in una dimensione non collimante con la trama complessiva delle norme costituzionali che riguardano il capo dello Stato ( come si ricordava già nel 2010 per altre ragioni). La Costituzione, infatti, solo all’articolo 87, dopo aver minutamente regolato le modalità di elezione del presidente, ha precisato le funzioni quirinalizie stabilendo che «il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale». Un enunciato di somma rilevanza giuridica e assiologica che mal si concilia con la prevista modifica dello stesso articolo 87 che consegna al capo dello Stato la presidenza di entrambi i Csm, poiché quell’unità di rappresentanza è contraddetta dall’esclusione dell’avvocatura e, quindi, della difesa dal massimo patrocinio istituzionale. In altri termini: non si può immaginare di collocare il presidente della Repubblica in un ordito costituzionale che ne contraddica la matrice unitaria e rischi di schierarlo sul versante di una parte processuale ( si pensi solo alla prassi del Csm delle cc. dd. pratiche a tutela dei singoli magistrati o degli uffici inquirenti). Quattro.

Tornando, quindi, alla possibilità che il presidente della Repubblica non promulghi la legge costituzionale di separazione dei poteri dopo il completamento della doppia lettura parlamentare, deve tenersi in conto che la migliore dottrina costituzionalistica, e in tempi non sospetti, ha ritenuto che questo potere di rinvio di un disegno di legge costituzionale possa/ debba essere esercitato ogni qualvolta la modifica della Carta fondamentale intacchi il principio di separazione dei poteri e, quindi, il costante mantenimento di efficaci meccanismi di checks and balances ( da ultimo, Romboli, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, in Luciani – Volpi ( a cura di), Il Mulino, 1997, pag. 297 e, con diverse sfumature Modugno, Mortati, Pizzorusso, Cuocolo, Galeotti, Pezzini e altri) nonché, comporti violazione del principio di ragionevolezza. Il passaggio al Colle, quindi, si prospetta come non scontato e puramente neutrale, poiché la riforma intacca proprio prerogative e funzioni della presidenza della Repubblica e, quindi, potrebbe costringere il Quirinale a un rinvio alle Camere dagli effetti non prevedibili.