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GIOVANNI BACHELET - PROFESSORE
Giovanni Bachelet sarebbe un testimonial perfetto, per la giustizia riparativa. Ieri, il figlio del vicepresidente Csm caduto sotto il fuoco brigatista ha accolto con parole di autentica carità cristiana la notizia della morte di Anna Laura Braghetti, la terrorista che il 12 febbraio dell’80 scaricò i proiettili sul giurista: «Almeno, dopo tanti anni di carcere, la buona Anna Laura qualche anno da persona libera l’ha potuto fare. L’avevo conosciuta anni fa a un convegno», ha detto Giovanni Bachelet al giornalista dell’Adn-Kronos Francesco Saita, «e le avevo stretto la mano volentieri».
Il figlio del professore al quale oggi è intitolata la sede stessa del Csm è un cattolico autentico, e straordinario. Ma fra la restorative justice introdotta nel 2021 da Marta Cartabia e le vittime del terrorismo brigatista c’era già un nesso molto chiaro. Com’è noto, Cartabia prefigurò, almeno idealmente, gli interventi poi firmati come ministra guardasigilli in un saggio firmato, nell’ottobre 2020, con il criminologo Adolfo Ceretti, “Un altra storia inizia qui”.
Ebbene: proprio Ceretti, cinque anni prima, era stato autore di un altro volume, “Il libro dell’incontro”, in cui raccontava il proprio impegno nel favorire un clamoroso archetipo della giustizia riparativa: gli incontri che, insieme con i coautori Claudio Mazzuccato (giurista) e Guido Bretagna (sacerdote) aveva reso possibili fra gli ex brigatisti e alcune loro vittime. Tra i protagonisti della restorative justice ante litteram vi furono anche Agnese Moro e Franco Bonisoli, componente del commando che pianificò il rapimento e poi l’esecuzione dello statista Dc.
Può apparire persino scontato, il legame e addirittura la derivazione sistemica delle storie legate agli anni più bui della Repubblica e le novità introdotte da Cartabia nel 2021 (con la legge delega numero 134 attuata, l’anno dopo, con decreto legislativo 150). Sembra un’evoluzione naturale, eppure il limite della giustizia riparativa in Italia trova un corrispettivo proprio nell’eccezionalità delle sue premesse storiche.
Sono straordinarie e non facilmente ripetibili, nel nostro Paese, le parole pronunciate da Giovanni Bachelet non solo ieri dinanzi alla morte di Braghetti («sia mio padre sia Aldo Moro, che la Costituzione l’ha pure scritta, sarebbero di certo contenti che l’articolo 27 della Carta, almeno nel caso della Braghetti e di altri, è stato rispettato: la pena deve rieducare, dare un’altra possibilità»). Già durante le solenni esequie del padre, l’allora 25enne Bachelet junior ebbe a dire: «Preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».
È come se le testimonianze di Agnese Moro, o del figlio del vicepresidente Csm assassinato nell’80, conferissero, per contrappunto, un peso ancora più desolante al quadro generale. Basta considerare la limitatissima diffusione della giustizia riparativa nelle carceri una volta entrato in vigore il decreto legislativo 150: un anno dopo, nel 2023, riferiscono i dati di Antigone più volte citati su queste pagine, i programmi riconciliativi erano stati attivati in appena 13 carceri sugli oltre 200 istituti di pena (minorili inclusi) esistenti nel Paese.
Ridottissima l’adesione dei detenuti, che in genere optano per proposte trattamentali in grado di concedere loro, almeno in prospettiva, la fruizione di benefici all’esterno della prigione. Sempre per l’associazione presieduta da Patrizio Gonnella, a Busto Arsizio solo 10 detenuti su oltre 450 avevano aderito al programma riconciliativo. Ed erano appena 15 su 690 a Genova e 55 su 990 a Santa Maria Capua vetere.
Vuol dire che la restorative justice è in affanno anche al di là degli attriti che sembra generare, anche secondo una parte dell’avvocatura, con la presunzione d’innocenza: è vero che l’accesso (anzi, l’invio, da parte del giudice) agli incontri con la vittima è previsto anche prima della condanna definitiva, ma come si vede la scarsa popolarità resta anche quando le condanne passano in giudicato. Le tensioni, in termini di principio, possono essere anche forti, ma non bastano a spiegare la debole penetrazione dell’istituto, la scarsa comprensione del valore civile che la riparazione, il dialogo reo-vittima, può avere non solo per le vite dei protagonisti, ma nella stessa percezione collettiva della giustizia penale.
In un saggio scritto con il giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna, “Oltre la vendetta. La giustizia riparativa in Italia”, il magistrato Marcello Bortolato, giudice di sorveglianza che dedica ogni possibile sforzo ad affermare il valore rieducativo della pena, sostiene che la riconciliazione rappresenta «qualcosa di rivoluzionario» perché «nella sua sostanziale contrapposizione alla giustizia punitiva, mette in crisi principi consolidati e molte delle nostre certezze, e soprattutto rompe quella verticalità che da sempre assiste il processo». Ma forse è proprio la dimensione della “rottura” con il quadro generale, a compromettere la diffusione del principio.
Sempre Giovanni Bachelet, nelle sue dichiarazioni, ha chiuso con un’analisi rivelatrice: «Quando la pena non è una condanna senza speranza, è un successo della nostra democrazia, della nostra Costituzione». Bene. Ma non si può tacere della freddezza che il governo Meloni e l’attuale maggioranza di centrodestra hanno manifestato proprio nei confronti del “diritto alla speranza” per gli ergastolani ostativi. E in particolare, per i detenuti colpevoli dei reati di mafia e terrorismo. Addirittura, il primo provvedimento dell’attuale Esecutivo è consistito in un decreto sulla concessione della libertà ai condannati all’ergastolo per mafia che non “collaborano” con la giustizia. Decreto “imposto” da una precedente, celebre ordinanza della Corte costituzionale, la 97 del 2021, ma che ha finito per subordinare lo spiraglio voluto dalla Consulta a condizioni così stringenti da rendere il “diritto alla speranza” di fatto inaccessibile.
Proprio Cartabia, da giudice e presidente della Corte, aveva contribuito, con Giorgio Lattanzi, ad aprire la breccia dello Stato di diritto nel muro dell’ergastolo ostativo. Ma la soluzione poi trovata dal governo successivo a quello, presieduto da Mario Draghi, di cui Cartabia ha fatto parte, è la più plastica dimostrazione di quanto sia impopolare, in Italia, un’idea riconciliativa e non vendicativa della giustizia penale.


