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Avvocati uccisi: Francesco Pagliuso, Serafino Famà, Francesca Trombino, Lorenzo Claris Appiani e Pasquale Cappuccio
Il 9 aprile 2015 l’avvocato di 37 anni Lorenzo Claris Appiani fu ucciso all’interno del Tribunale di Milano a colpi di pistola mentre partecipava, come testimone, al processo del suo assassino e suo ex cliente, l’immobiliarista fallito Claudio Giardiello, che ammazzò anche il coimputato Giorgio Erba e il giudice Fernando Ciampi. Altre due persone rimasero ferite. La madre gli disse che quella convocazione non le piaceva e chiese al figlio di non andare. Lorenzo le risposte: «Ma mamma, cosa vuoi che mi succeda in tribunale?». La sua è una delle tante storie di avvocati, noti e meno noti alle cronache, uccisi nell’esercizio delle loro funzioni.
Era il 9 novembre 1995 quando, intorno alle ore 21, il penalista Serafino Famà veniva ammazzato a Catania dalla mafia. La vittima, in compagnia del collega Michele Ragonese, era appena uscita dallo studio poco distante e stava raggiungendo la macchina posteggiata in piazzale Sanzio per tornare a casa, quando venne raggiunto da 6 colpi di Berretta calibro 7,65 dotata di silenziatore, che lo colpirono ripetutamente al volto e al torace.
Famà si accasciò al suolo e morì dopo una inutile corsa in ambulanza al Pronto Soccorso dell'ospedale Garibaldi. Aveva solo 57 anni. I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrissero: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell'omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell'attività professionale espletata dall'avvocato Famà».
Francesca Trombino, madre di due bambini ancora piccoli, aveva 43 anni quando il 6 marzo 1998 davanti al suo studio di Pordenone fu uccisa brutalmente a martellate dal marito di una sua assistita che la riteneva responsabile del fallimento matrimoniale. Nel 2009, a Ladispoli, due avvocati, Francesco Terracciano e Paolo Salineri, 70 e 39 anni, furono uccisi a colpi d'arma da fuoco nel loro studio legale.
L'omicida fu Santo Barbino, un imprenditore locale che si era sentito danneggiato da una causa persa e non voleva pagare una parcella di poche migliaia di euro.
Era il 9 agosto 2016 quando l’avvocato Francesco Pagliuso perse la vita a Lamezia Terme a causa di alcuni colpi di pistola sparati da un killer appostato nel giardino della sua abitazione. L'omicidio del penalista sarebbe stato motivato dalla sua decisione di non piegarsi alle pretese di una cosca locale.
La sera del 13 settembre del 1978 a Napoli, Pasquale Cappuccio, dopo essere stato al circolo che frequentava di solito, sale in macchina con la moglie per tornare a casa.
Sulla strada del ritorno, una Fiat 128 blu con due giovani a bordo sorpassa l'auto dell'avvocato. Il killer spara e lo uccide all'istante, mentre la moglie resterà ferita lievemente. Secondo gli inquirenti, Cappuccio sarebbe stato ucciso per essersi opposto alla concessione di alcuni appalti a ditte legate alla camorra e per contrasti con l’ex sindaco di Ottaviano. Ma non si escludeva una vendetta della camorra, poiché Cappuccio aveva patrocinato la parte civile in un processo contro Cutolo, svoltosi pochi anni prima dell’omicidio. Tuttavia, dopo la condanna all'ergastolo in primo grado per Cutolo e un altro imputato, il processo si concluse con l'assoluzione.
Una morte annunciata fu quella dell’avvocato Dino Gassani assassinato a soli 51 anni la sera del 27 marzo 1981 nel suo centralissimo studio di Salerno insieme al suo fedelissimo segretario Pino Grimaldi (ex agente di PS). La morte del penalista e del suo segretario, che determinò sdegno e terrore in tutto il Paese, fu ordinata da Raffaele Catapano (detto il boia delle carceri) e dagli esecutori materiali Mario Cuomo e Antonio Schirato. Dino Gassani nel ’78, come si legge nel sito in suo ricordo, aveva assunto la difesa di Biagio Garzione. Costui era stato il telefonista dell’anonima sequestri che organizzò i rapimenti dei due imprenditori napoletani, Ambrosio e Amabile.
All’epoca dei fatti non era stata ancora varata la legge a tutela dei collaboratori di giustizia, tuttavia il codice penale già prevedeva forti sconti di pena in favore di chi collaborava con la giustizia. Fu così che Dino Gassani convinse, come suo dovere, il Garzione a rivelare nel processo i nomi della anonima sequestri, tra cui spiccava quello di Raffaele Catapano, all’epoca uno degli uomini di fiducia di Raffaele Cutolo, noto per la sua spietatezza.
A Dino Gassani la camorra, a quel punto, rivolse varie minacce di morte per più di due anni al fine di indurlo a far ritrattare le dichiarazioni di Garzione e scagionare la banda dei rapitori. Il penalista, tuttavia, non si piegò a tali minacce, come egli stesso dichiarò a più riprese ad amici e parenti prima di essere assassinato. Quando la Polizia si precipitò sul luogo del delitto rinvenne sulla scrivania del penalista un foglietto su cui era scritto di proprio pugno dal penalista : “Non posso perdere ogni dignità”. Accanto a tale foglietto fu rinvenuta l’ennesima lettera anonima di minaccia ( di cui dopo si venne a sapere il vero autore).