La separazione delle carriere renderà il pubblico ministero troppo autonomo e autoreferenziale, creando uno squilibrio che potrebbe richiedere un controllo esterno, con tutte le implicazioni che ne derivano per l’indipendenza della magistratura. Parola di Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, secondo cui «una magistratura divisa rischia di spingere il pubblico ministero verso il ruolo dell’avvocato della polizia, compromettendo elementi fondamentali della nostra tradizione giuridica».

La separazione delle carriere è ormai alle porte. È preoccupato?

Sono preoccupato perché la riforma non migliora la giurisdizione, già problematica, e rischia di cambiare profondamente il suo assetto. Se l’obiettivo è la parità delle parti, il vero rischio è che il pubblico ministero venga assolutamente stravolto.

In che modo?

Per l’eterogenesi dei fini, diventerebbe un organo sempre più autoreferenziale. Un pm con un Csm autonomo è più potente e quindi richiede, in futuro, un contrappeso che può venire solo dal controllo del governo.

Il pm già adesso ha un potere molto forte, potendo incidere, tra le altre cose, sulla libertà delle persone. Com’è possibile che il suo dna cambi in modo così repentino, tanto da trasformarlo in un super poliziotto?

Quando il pubblico ministero fa parte di un Consiglio superiore con giudici, adotta un approccio più aperto al confronto. La tabellarizzazione degli uffici di procura, pur complessa, ha favorito il dialogo tra culture giuridiche diverse. Oggi il potere del pm è bilanciato dal confronto nel Csm unico, che funge da equilibrio. L’abolizione di questo Csm unico è la cosa che più preoccupa: avrebbe potuto essere mantenuto, rispettando l’unità della magistratura, prevista dalla Carta anche nella versione post riforma. Invece, si crea una vera e propria separazione tra magistrature, spingendo il pm verso un ruolo simile all’avvocato della polizia, come negli Usa, dove però il pm è elettivo e non obbligato all’azione penale. Questo rischia di compromettere la nostra tradizione giuridica e preoccupa molto.

Nel testo della riforma viene però ribadito che la magistratura rimarrà un potere indipendente. Non ci crede?

Credo nella buona fede di chi sostiene la riforma, ma una volta in vigore, l’autonomia del pubblico ministero rispetto ai giudici renderà necessario un meccanismo di gerarchia. Oggi gli uffici giudiziari sono molto autonomi, ma questo è bilanciato dall’unità della magistratura. Se questo equilibrio si rompe, la gerarchizzazione rischia di diventare una direzione politica. Un pubblico ministero troppo autonomo e autoreferenziale sarebbe un’anomalia difficile da sostenere.

Lei però, in tempi non sospetti, aveva fatto una critica molto dura alle correnti che si erano trasformate da strumento di elaborazione delle posizioni culturali in un trampolino per le carriere dei magistrati. Secondo lei è ancora così?

Quella di cui avevo parlato è la degenerazione delle correnti, che rischiano di trasformarsi in altro. Ma se ho una ferita, non amputo la mano: intervengo sulla ferita. La magistratura, pur senza aver compiuto tutta l’autocritica necessaria, ha preso atto di molte cose, e ciò che è emerso lo si deve anche al suo stesso lavoro, non a quello di altri poteri. Credo abbia una capacità di autorigenerarsi maggiore di quanto si pensi, possiede anticorpi e strumenti per reagire alle derive. Mi preoccupa chi sostiene che nulla sia cambiato o che non ci sia nulla da fare. Non lo condivido e mi auguro che certi episodi non si ripetano.

Sulla vicenda Palamara c’è chi dice però che a far venir fuori lo scandalo è stata quella parte di magistratura che voleva ribaltare gli equilibri di potere all’interno del Csm, al netto delle indagini che da lì sono poi scaturite…

Della vicenda specifica non posso parlare, ma le affermazioni fatte, anche da figure autorevoli, restano prive di prove. Nessuno ha dimostrato né che si volesse insabbiare nulla, né che si sarebbe andati fino in fondo: sono solo illazioni, mai supportate da fatti, nemmeno da chi avrebbe il potere di accertarli.

Il consigliere Andrea Mirenda, sul Dubbio, ha difeso l’idea del sorteggio, che potrebbe liberare il togato dal “vincolo di mandato” della corrente di appartenenza, rendendolo rappresentativo dell’intera magistratura. Come risponde?

Prima di tutto, esprimo simpatia per lui e apprezzo la presenza di voci dissonanti nel Csm. Ma proprio la sua elezione dimostra che non serve il sorteggio per rompere i vincoli di corrente: se c’è stato un Mirenda, vuol dire che può esserci ancora.

Però si tratta dell’unico componente sorteggiato.

Il sorteggio ha permesso ad Andrea Mirenda di candidarsi, ma poi è stato comunque scelto dai magistrati che lo hanno votato. E va riconosciuto che sta dimostrando capacità politiche, in senso positivo. Condivido le sue osservazioni sul fatto che il Csm non debba essere un organo di indirizzo politico, ma chi vi partecipa deve avere competenze specifiche. Personalmente, non mi sentirei adatto a svolgere questo ruolo e credo che il sorteggio non possa rappresentare adeguatamente tutti i magistrati. La componente territoriale, legata all’elezione, arricchisce il sistema: consente di conoscere persone, vicende e dinamiche degli uffici, un patrimonio di conoscenze prezioso per le funzioni amministrative del Csm. Col sorteggio, rischieremmo di perdere tutto questo. È un modo per garantire l’indipendenza, ma di nuovo sarebbe come amputare l’intera mano per un’infezione. Inoltre, perché questo meccanismo dovrebbe valere solo per la magistratura ordinaria? Oggi ci sono più magistrature rispetto all’epoca della Costituzione e la più potente non è quella ordinaria. La riforma riguarda solo questa, mentre si ignorano realtà come la magistratura tributaria – che sarà molto influente – e quella amministrativa, che decide anche sulle carriere degli altri magistrati. Eppure, nessuno sembra porsi il problema. Sono d’accordo con il procuratore Melillo: c’è la volontà, esplicita o meno, di indebolire la magistratura ordinaria. Se si fosse prevista solo la separazione delle carriere, mantenendo un Csm unico, probabilmente le polemiche sarebbero state minori.

Se questa non è la cura, in che modo ridare alla magistratura la credibilità che è andata scemando non solo col caso Palamara, ma anche con altri episodi?

Le soluzioni dipendono anche dalla capacità del Parlamento di affrontare seriamente il tema dell’efficienza. La politica dovrebbe mettere i magistrati nelle condizioni di rispondere ai cittadini e poi valutarne i risultati. Oggi molti uffici sono privi di cancellieri e i concorsi non vengono più banditi. Rispetto al passato, i meccanismi di accountability — grazie anche al controllo della stampa e dell’opinione pubblica — sono molto più incisivi. Un’opinione pubblica informata può contribuire a valutare se la magistratura è all’altezza del proprio compito. È poi paradossale accusare la magistratura di essere un problema, mentre si aumentano i reati e si delegano sempre più funzioni di ordine pubblico proprio ai magistrati. Del resto la magistratura è parte dello Stato, screditarla significa l’immagine dello Stato.

Spesso le toghe vengono accusate di essere politicizzate e di strabordare nelle dichiarazioni pubbliche. Crede ci sia stato un superamento del limite nelle esternazioni dei suoi colleghi?

Dobbiamo chiarire qual è il limite. Sono d’accordo sulla necessità di regole e di un self-restraint per stabilire fin dove un magistrato possa esprimersi. Ma possiamo davvero tornare all’idea, ormai superata, del magistrato che parla solo con le sentenze? Se Falcone e Borsellino non avessero iniziato a parlare pubblicamente di mafia, anche nelle scuole — nonostante le critiche, soprattutto da altri magistrati — avremmo avuto gli stessi risultati nella lotta alla criminalità organizzata? È giusto che un magistrato resti in silenzio su temi che lo riguardano? In una democrazia deve esserci spazio per un dissenso ragionevole, non violento e argomentato, anche verso chi esercita legittimamente un potere, come un ministro. Dissentire non è vilipendio. Anzi, in democrazia è più preoccupante l’assenza di critiche che la loro esistenza. Quanto alla politicizzazione, è un’accusa strumentale. Fino a poco fa si diceva che la procura di Milano fosse “rossa”, ma ora che indaga una giunta di sinistra, non lo è più. L’idea che la magistratura sia un’appendice della sinistra non ha fondamento: è solo un comodo pretesto per evitare di rispondere nel merito.