La giustizia, si sa, ha i suoi tempi e anche i suoi labirinti. Ma quando si parla di corruzione, il labirinto si fa ancora più intricato e la Corte di Cassazione, con una recente sentenza che pare destinata a fare scuola, ha bacchettando la Corte d’Appello di Lecce per aver interpretato in modo troppo estensivo i contorni del reato. Il cuore della censura della Suprema Corte batte su un principio cardine del diritto penale: perché si configuri il delitto di corruzione propria, non basta la mera dazione o promessa di denaro o di altre utilità indebite e la loro accettazione da parte del pubblico ufficiale. Un concetto che, a un primo sguardo, potrebbe sembrare controintuitivo per il cittadino comune, abituato a identificare la corruzione con lo scambio di denaro. La Cassazione è categorica: è invece necessario che la promessa o dazione del corruttore e l’accettazione del corrotto convergono verso la medesima finalità e diano causa al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio. La sentenza riguarda un’indagine del 2016, denominata “Maricommi”, il presunto sistema illecito di gestione degli appalti e affidamenti presso proprio la Direzione Commissariato di Taranto della Marina Militare “Maricommi”. Ad essere coinvolti furono tra gli altri Elena Corina Boicea, Vincenzo Calabrese, Giovanni Di Guardo, Marcello Martire e Giuseppe Musciacchio. E, sono proprio loro a ricorrere in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Lecce dell’8 luglio 2024, dove erano stati condannati per reati legati a un’associazione per delinquere finalizzata a pilotare gare d’appalto e affidamenti di opere e servizi presso la “Maricommi”. Altri reati contestati: induzione indebita a dare o promettere utilità, turbata libertà degli incanti, rivelazione di segreti d’ufficio nonché vari episodi di corruzione.

«Il giudice del rinvio ha inteso valorizzare il solo elemento della dazione, quando invece, perché sia integrata la corruzione propria, non sono sufficienti la sussistenza di percezioni o promesse e la natura indebita del denaro o delle utilità accettate dal pubblico ufficiale, ma è necessario - rimarcano gli Ermellini - che la promessa/dazione del corruttore e l’accettazione del corrotto convergano verso la medesima finalità e diano causa al compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. La sentenza, invece, non ha dato conto del contenuto dell’accordo corruttivo e del sinallagma fra le due prestazioni, tanto più che gli asseriti atti contrari ai doveri d’ufficio e l’aggiudicazione del servizio a Calabrese sarebbero avvenuti in epoca precedente rispetto al momento della dazione del denaro».

Un passaggio questo che sposta il focus dall’atto materiale del dare/avere all’esistenza di un vero e proprio accordo illecito, un «pactum sceleris». Questo significa, in particolare, l’esistenza di un accordo corruttivo che preveda in modo sinallagmatico – cioè con una chiara corrispondenza – la prestazione illecita del pubblico ufficiale (l’atto contrario ai doveri d’ufficio) e l’erogazione dell’utilità da parte del privato. La Cassazione non usa mezzi termini, criticando aspramente la Corte d’Appello per non aver affrontato il tema della sussistenza di tale accordo sinallagmatico, nonostante le chiare indicazioni della precedente sentenza di annullamento. Un errore che, secondo la Suprema Corte, ha inficiato l’intero ragionamento probatorio. L’atto illecito: non un’ipotesi, ma una prova concreta. E non è tutto. La Cassazione ha rimarcato con forza un altro aspetto cruciale: l’atto contrario ai doveri d’ufficio deve essere concretamente provato. L’illiceità della condotta del pubblico ufficiale non può essere dedotta, quasi per automatismo, dalla mera dazione o accettazione di denaro. È indispensabile accertare le modalità della presunta alterazione del procedimento amministrativo e la non conformità ai doveri d’ufficio della condotta tenuta dal pubblico ufficiale. La Corte ha rilevato come la sentenza d’appello abbia accertato la contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio, prescindendo dalla conoscenza e dall’esame degli atti ufficiali compiuti dal ricorrente e sulla base di «mere asserzioni», basandosi su «prove che non esistono o su massime di esperienza di dubbia tenuta e omettendo - scrivono - di argomentare circa la riconducibilità a Di Guardo delle prospettate violazioni». Un “buco nero” probatorio che la Cassazione non ha potuto ignorare. Non basta la «presa in carico» dell’interesse senza un atto illecito. E, ancora, la Cassazione ha ricordato un punto già evidenziato in una precedente sentenza di annullamento: la sola accettazione di denaro non basta a integrare il delitto di corruzione propria. Occorre verificare se l’esercizio dell’attività del pubblico ufficiale sia stata condizionata dalla «presa in carico» dell’interesse del privato corruttore, con la conseguente adozione di un atto illecito. La pronuncia potrebbe ora avere ricadute anche sul procedimento a carico dell’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci, dove l’impianto accusatorio ruota proprio attorno alla qualificazione degli atti amministrativi contestati e al loro legame con le utilità percepite. E richiama anche un altro recente caso, quello dell’ex governatore della Liguria, che ha poi patteggiato la pena e lasciato la carica di presidente della Regione.

La Corte d’Appello, secondo i giudici di legittimità, ha «preteso di derivare dalla dazione non solo l’attribuzione della paternità dell’atto a Di Guardo, ma anche la contrarietà del suo agire ai doveri d’ufficio». Con una serie di ammonizioni, la palla torna dunque alla Corte d’Appello di Lecce, che dovrà rivedere il processo alla luce di queste stringenti indicazioni della Cassazione. E per l’indagine “Maricommi” si riaprirà così un nuovo capitolo processuale.