Di seguito pubblichiamo una serie di stralci tratti dal libro di Iacopo Benevieri “Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere” (Tab edizioni 2022)

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“Il processo penale è una civiltà di parole. L’aforisma, nella sua epigrammatica chiarezza, vorrebbe manifestare il complesso rapporto tra linguaggio e processo penale. Su tale tema si è costretti a registrare una diffusa inconsapevolezza, soprattutto tra gli operatori del diritto.

Storicamente la rilevanza del ruolo della parola, che ha concrete conseguenze nella quotidiana attuazione giustizia penale, era già nota fin dall’antichità. Il processo penale nasce come reazione a una giustizia praticata tramite faide, vendette, duelli. La reazione ha sostituito la giustizia privata a un dialettico confronto di parole. Alla civiltà della parola si è consegnato il processo penale: la narrazione del fatto denunciato dalla persona offesa, l’esposizione della propria difesa a opera della persona accusata, la narrazione di quanto osservato o conosciuto da parte dei testimoni, l’argomentare difensivo, la pronuncia finale del giudice. Il processo è diventato un incontro tra narrazioni. Come ebbe a scrivere una nota linguista, al di fuori di questa 'civiltà di parole' non v’è più processo penale bensì solo una sconfinata terra di rappresaglie, di mafie, di regolamenti di conti, di sopraffazioni del parte del più forte” (...)

“Nell’ambito del processo penale i binomi Linguaggio-Potere e Linguaggio-Garanzia costituiscono una matrice fondativa che presiede al ruolo della Parola nell’esercizio della giurisdizione penale. La Parola nel processo penale è Potere e Garanzia. La Parola, cioè, è veicolo di dominio, è terra di dominio, ma anche presidio che lo arresta, katéchon che frena e garantisce il diritto dell’individuo.

Questa duplicità emerge sia nelle architetture portanti del processo penale (livello di macro-analisi), sia nelle specifiche dinamiche che caratterizzano le interazioni linguistiche nell’aula di udienza dibattimentale (livello di micro-analisi). Questi due piani di operatività del Linguaggio come Potere e come Garanzia si riflettono e si nutrono reciprocamente.”(...)

“Laddove dovesse vigere nel processo penale un dominio della Parola come espressione del Potere di attori istituzionali senza alcun presidio che garantisca la Parola pronunciata da chi non ricopre tali ruoli nell’aula di udienza; laddove la parola dell’imputato, del testimone dovessero esser abbandonate in aula alle suggestione o alla intimidazione di giudici, pubblici ministeri e avvocati; laddove la dichiarazione della vittima del reato dovesse esser indotta, intimorita, degradata da domande nocive; laddove accadesse questo, si celebrerebbero processi iniqui, si tornerebbe a respirare nell’aula di udienza l’antica aria inquisitoria, forse mai uscite definitvamente dalla civiltà occidentale” (...)

“Contro questi rituali di degradazione della parola presiedono i principi costituzionali e normativi che frenano la Parola-Potere nel processo penale e assicurano le condizioni di esistenza della Parola-Garanzia”.

“Le asimmetrie di genere vengono riprodotte continuamente nel processo penale tramite schegge linguistiche di spessore infinitesimale. Spesso ci sfuggono perché sono rilevabili unicamente se viene adottato un livello di analisi che scenda nei più sottili movimenti della dinamica comunicativa. Solo se ci poniamo in un tale piano di osservazione si possono constatare le asimmetrie di genere attuate, per esempio, tramite l’uso di alcuni vocaboli, una certa gestione delle pause, o alcune forme sintattiche con le quali vengono formulate le domande. E’ il livello di micro-discorso in senso foucaultiano, cioè quella dimensione di messa in opera della parola nella quale il potere viene concretamente realizzato, esercitato, riprodotto, sovvertito”(...)

“Tuttavia le pareti dell’aula di udienza sono membrane attraversate dall’aria della società esterna, cosicché tra i banchi del giudice e degli avvocati, oltre alle asimmetrie comunicative giuridicamente codificate, si sovrappongono ulteriori disuguaglianze, quelle cioè provenienti dal mondo esterno: quelle di tipo sociale, religioso, etnico, economico e anche di genere. Si realizza in tal modo un ulteriore sbilanciamento in favore dell’interlocutore forte quando quello debole appartenga alla categoria dei soggetti socialmente vulnerabili.

Costoro si trovano spesso a subire un potere nella gestione della conversazione che riduce ulteriormente i loro spazi comunicativi.

All’asimmetria interazionale si aggiunge quella sociale. E’ pertanto urgente che tutti coloro che hanno ruoli istituzionali nell’aula di udienza, titolari dunque di una funzione “dominante” nella interazione processuale, siano consapevoli del fatto che l’esercizio delle loro legittime e irrinunciabili facoltà (per es., formulare le domande, finanche suggestive per verificare legittimamente la credibilità del soggetto dichiarante) potrebbe ampliare ulteriormente l’asimmetria quando l’interlocutore debole rechi con sé un propria originaria vulnerabilità. Tale consapevolezza risulta ancor più urgente con riferimento ai “vulnerabili” di genere, in quanto la struttura sociale e culturale orienta continuamente la percezione della realtà secondo schemi patriarcali: resistervi implica una continua capacità di sorvegliarsi linguisticamente. E’ necessario dunque occuparsi di una nuova disciplina, la 'traumatologia' della parola, affinché

nei luoghi istituzionali della Giustizia il nostro parlare sia un continuo atto di assunzione di responsabilità e di garanzia, non di potere rivittimizzante. Attualmente constatiamo, al contrario, come nel processo penale spesso la parola costituisca un organismo che gli stessi operatori istituzionali d'aula non conoscono, pur interagendovi quotidianamente per trarne prove, indizi, deduzioni, argomenti. Questo approccio “domestico” all’uso della parola in aula, basato unicamente su personali capacità, spesso permette un sovradimensionamento della Parola come Potere e un sottodimensionamento della Parola come Garanzia: dietro un uso inconsapevole della parola si nasconde infatti il rischio di utilizzarla come strumento di dominio, anche di genere, anziché come strumento di garanzia, resuscitando così mai sopite culture inquisitorie. Difatti in ogni realizzazione storica del modello processuale inquisitorio la necessità del controllo da parte dell’Inquisitore si è sempre espressa, prima che sui corpi, prima che sul contraddittorio, prima che sulla pubblicità del processo, prima che nei luoghi della sua celebrazione, sulla parola di chi partecipa al processo”.

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Il punto centrale, nelle motivazioni della sentenza di Torino che ha riconosciuto le lesioni ma non i maltrattamenti nei confronti di una donna, il punto centrale non è stabilire se vi siano elementi di prova a favore dell’imputato, né discutere la sua eventuale assoluzione. Insistere su questo sposterebbe il fuoco della questione. Il nodo vero è un altro: in generale se anche l’imputato viene assolto, ma nelle motivazioni il giudice utilizza un linguaggio moralizzante per stigmatizzarlo, ciò ci porterebbe ugualmente a sollevare critiche.

Per coerenza, se quel medesimo linguaggio viene rivolto alla persona offesa, dobbiamo riconoscere che il problema resta identico.

Il cuore della riflessione sta qui: il Tribunale, nella sua motivazione, non si è limitato a esporre le ragioni logico-giuridiche della decisione, ma ha usato un linguaggio che “incornicia” – per dirla con la sociolinguistica (“frame”) le condotte della donna in chiave emotiva, culturale e sociale.

Quando la sentenza afferma che “non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato nel constatare che sua moglie poneva fine con un messaggio WhatsApp a un legame quasi ventennale”, compie un’operazione semantica precisa: trasforma le conseguenze della scelta della donna in materia di biasimo collettivo.

L’espressione “non è difficile immaginare” richiama infatti a una percezione condivisa, quasi a dire: “tutti pensiamo la stessa cosa”. In tal modo, la condotta della donna viene caricata di una valenza colpevolizzante, mentre l’attenzione si concentra sulla dimensione emotiva dell’imputato, che viene così umanamente compreso.

Ma una sentenza non è solo un atto giuridico: ha anche una funzione meta-giuridica, perché è pronunciata “in nome del popolo italiano”. È una narrazione ufficiale che diventa parte del discorso pubblico sulla giustizia e sul reato. Per questo, le parole utilizzate non possono attingere a registri moralizzanti o colpevolizzanti né contro l’imputato né contro la persona offesa e la reazione nostra deve esser la medesima: ciò perché tale approccio linguistico tradirebbe la neutralità che la giurisdizione deve incarnare (il giudice non solo deve essere imparziale ma deve apparire tale, insegnavano all’università).

In altre parole, il principio del giusto processo implica anche il principio del giusto linguaggio. La giustizia non parla soltanto alle parti, ma alla società intera: e il modo in cui lo fa costruisce – o decostruisce – l’idea stessa di equità.