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GIUSTIZIA TRIBUNALE PROCESSO GIUDICE MARTELLETTO
Si può essere giudice e pubblico ministero nello stesso tempo? No, in teoria, e resterebbe impossibile anche se la separazione delle carriere fosse bocciata dal referendum: l’ubiquità funzionale sembrerebbe già vietata dalle attuali norme sull’ordinamento giudiziario. Ma la realtà quotidiana di Tribunali e Procure può superare l’immaginazione e, per certi aspetti, persino il dettato normativo.
E così a Napoli c’è un pubblico ministero, il dottor Michele Ciambellini, che continua a fare il giudice. È già stato assegnato al più prestigioso ufficio inquirente del Paese, la Procura generale della Cassazione. Eppure continua a svolgere funzioni di magistrato giudicante all’ombra del Vesuvio. In particolare, presso la settima sezione penale, e in un ben preciso processo: il giudizio di primo grado ai presunti vertici del clan Moccia, organizzazione criminale che esiste da decenni ma nella quale gli imputati, tra i quali compaiono i fratelli e presunti boss Antonio, Gennaro e Luigi Moccia, sostengono di non avere alcun ruolo.
Si tratta, certo, di una vicenda giudiziaria importante. Che ha suscitato, l’estate scorsa, un uragano di polemiche a livello locale, per la scarcerazione di 15 delle persone sotto accusa. Resta però singolare che un certamente valentissimo magistrato come Ciambellini, togato Csm per Unicost nel precedente quadriennio, possa da una parte aver manifestato, al Consiglio superiore attuale, la propria evidentemente forte vocazione professionale per la carriera requirente, ed essere però “blindato” dal presidente del Tribunale di Napoli, Gian Piero Scoppa, ancora nella carriera giudicante. Ciambellini sarà anzi, con buone probabilità, l’estensore materiale della sentenza sui presunti affiliati alla cosca dei Moccia.
I sostenitori del No al referendum sulle carriere sono particolarmente attivi, a Napoli, dove la locale sezione Anm ha organizzato, lo scorso 18 ottobre, un evento anti-Nordio all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia, scelta già di per sé ai confini fra esercizio delle funzioni e attività “politica”. E certo, i combattivi magistrati partenopei potrebbero obiettare che il passaggio di Ciambellini dal ruolo di giudice penale alle funzioni di sostituto pg in Cassazione avvalora, nella più plateale delle forme, l’appartenenza di giudicanti e requirenti alla medesima “cultura della giurisdizione”. Ma i sostenitori del Sì poterebbero facilmente controdedurre diversi argomenti. A cominciare dalla circostanza per cui la vocazione del dottor Ciambellini a una visione requirente della funzione sembrerebbe essersi manifestata con la sua particolare severità in alcuni passaggi del “processo Moccia”.
E qui siamo al recentissimo dato di cronaca: tre giorni fa, mercoledì 19 ottobre, 12 persone imputate nel processo ai presunti camorristi hanno presentato in Cassazione, per il tramite dei loro difensori, istanza di remissione del dibattimento ad altro giudice, in altro distretto, per “legittima suspicione”. Lamentano soprattutto il forte condizionamento mediatico che il citato caso delle scarcerazioni di inizio agosto avrebbe arrecato alla serenità dei giudici. Citano la mobilitazione di vari opinion leader, a partire da Roberto Saviano.
Ma soprattutto, gli imputati e i loro avvocati sostengono che “l’effetto più grave e inquietante del grave turbamento provocato dalla formidabile pressione mediatica messa in campo contro i Giudici del Tribunale di Napoli” è sicuramente il provvedimento con cui, appunto, il presidente Scoppa avrebbe accolto “la richiesta” che il giudizio sul clan Moccia diventi “un processo speciale”, ha disposto “l’esonero dei dottori Ciambellini, Ambrosio e Donnarumma”, gli attuali componenti del collegio, dalla trattazione di qualsiasi altro nuovo caso e, soprattutto, “ha attribuito la decisione del processo ad un collegio composto da un pm essendo il dr. Ciambellini già stato assegnato alla Procura Generale della Cassazione”.
Sempre nell’istanza di remissione ad altro distretto, si ricorda che Ciambellini è stato, insieme con gli altri due colleghi che compongono il collegio, l’unico giudice ad aver respinto, lo scorso 24 luglio, le istanze di scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Una decisione smentita, come accennato, pochi giorni dopo, il 2 agosto, quando i colleghi della sezione feriale hanno accolto la richiesta presentata dagli avvocati di altri 15 imputati, e rilevato come non ci fosse alcun appiglio per respingerla. Tale provvedimento è stato confermato ancora poche settimane dopo dal Riesame.
Ciambellini, ricostruiscono gli imputati e i loro difensori nell’istanza di remissione ad altro Tribunale, avrebbe dunque visto contraddetto il proprio orientamento dalle altrettanto autorevoli successive valutazioni di altri due diversi collegi. Non solo. Insieme con gli altri due colleghi che dovrebbero emettere la sentenza di primo grado, il giudice-pm, lo scorso 29 settembre, ha smentito clamorosamente i suoi “predecessori” nel “processo Moccia” (iniziato tre anni fa e che ha visto avvicendarsi numerosi giudici), e ha drasticamente tagliato “le liste della difesa” di oltre 90 testimoni “già in precedenza autorizzati”, appunto.
Naturalmente ciascun magistrato ha il pieno diritto di avere una certa postura nell’esercitare le proprie funzioni, e il discorso vale anche per Ciambellini. Ma è chiaro come l’intera vicenda faccia riflettere sui rischi di una persistente, pur limitata, osmosi fra la carriera giudicante e la requirente. Non solo perché, come nel particolarissimo caso partenopeo, un magistrato con la vocazione da pm, che è anzi già formalmente assegnato a un ufficio di Procura, può paraddosalmente trovarsi a fare ancora il giudice; ma soprattutto perché, in circostanze simili, l’orientamento culturale del magistrato può pesare anche sulle decisioni e sulle modalità di conduzione di un processo. Almeno finché quel pm continui a fare il giudice.


