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La Corte di giustizia dell’Unione europea apre la strada alla possibilità, per le forze di polizia, di conservare nel tempo dati biometrici e genetici di persone condannate o anche solo sospettate di reati intenzionali. Una decisione che chiarisce un nodo delicatissimo posto tra sicurezza pubblica e tutela della privacy, stabilendo che il diritto nazionale può legittimare tali pratiche senza introdurre necessariamente un limite temporale alla conservazione, purché siano rispettati i rigorosi principi europei sul trattamento dei dati sensibili.
La sentenza, resa nella causa C-57/23 e originata da un caso ceco, affronta tre questioni chiave. La prima riguarda che cosa debba intendersi per “diritto di uno Stato membro”. I giudici precisano che la base giuridica che autorizza la raccolta di dati biometrici non deve essere una norma dettagliata, ma può consistere in una disposizione generale interpretata dalla giurisprudenza nazionale, purché accessibile e prevedibile per i cittadini. Una linea che conferma un approccio sostanzialistico al concetto di legge e che lascia ampio spazio ai sistemi giuridici interni.
Il secondo punto, quello più sensibile, riguarda la possibilità di raccogliere in modo indistinto impronte digitali, profili DNA e altri identificativi di chiunque sia indagato o accusato per un reato intenzionale. La Corte non vi vede alcun contrasto con la direttiva 2016/680 (che disciplina il trattamento dei dati personali da parte delle autorità di polizia e giustizia, imponendo principi di necessità, proporzionalità e tutela dei diritti fondamentali), a condizione che gli obiettivi di prevenzione, indagine o perseguimento non impongano una distinzione tra sospetti e imputati e che il trattamento sia fondato sull’“assoluta necessità”, da valutare con rigore nel rispetto del principio di minimizzazione dei dati.
Terzo tema: la durata della conservazione. L’ordinamento nazionale non è obbligato a prevedere un termine massimo. Ciò che conta, secondo la Corte, è che esistano verifiche periodiche sulla necessità di mantenere i dati nei sistemi e che ogni proroga sia giustificata da motivazioni concrete. Se la conservazione non risulta più indispensabile, i dati devono essere cancellati.
La decisione, destinata avere ricadute sui modelli investigativi europei, rafforza i poteri delle polizie ma ribadisce che il trattamento di informazioni così invasive resta sottoposto a vincoli stringenti. Tra libertà individuali e sicurezza, la Corte di Lussemburgo disegna un equilibrio in cui gli Stati hanno margine di azione, ma non discrezionalità assoluta.


