La figura del pubblico ministero nella riforma Nordio, tirata da una parte e dall’altra nei timori di chi, dal mondo del “campo largo” della politica fino al sindacato delle toghe, un giorno lo vede troppo debole e l’altro troppo forte. Nella stessa giornata di sabato 20 settembre hanno parlato, su tre diversi quotidiani, il ministro guardasigilli, la responsabile giustizia del pd e un autorevole ex magistrato, già presidente della Camera dei deputati.

Colpisce il fatto che, mentre la riforma costituzionale procedeva in Parlamento fino a essere approvata in terza lettura e intanto la Anm costituiva il “Comitato per il no” al voto del probabile referendum, gli argomenti critici venissero via via affinati. Per settimane si è detta una colossale bugia: sganciando il pm dalla carriera unica e unita a quella dei “cugini” giudici, finirete con il sottoporlo al controllo del governo.

Era l’immaginazione del rappresentante dell’accusa come improvvisamente reso debole e sottomesso al volere del ministro guardasigilli. Il ministro Nordio, e insieme a lui i riformatori parlamentari dei partiti di maggioranza, erano costretti sulla difensiva. Ma avevano, e hanno, una robusta freccia al loro arco, perché è sufficiente leggere la nuova formulazione dell’articolo 104 della Costituzione, per verificare l’imbroglio e la malafede.

La sottoposizione del pm all’esecutivo non c’è. Il rappresentante della pubblica accusa rimane autonomo e indipendente. Ecco dunque il nuovo argomento, prodotto dai magistrati più accorti: volete rendere il pubblico ministero troppo forte. «Un superpoliziotto», fa eco la responsabile giustizia del Pd, intervistata dal Sole 24 ore. Debora Serracchiani non è abituata a farsi sorprendere in imbarazzo, per il semplice motivo che, quando ha cambiato idea, dice che la questione è un’altra. Ma non può dimenticare quali sono state le tappe che, in seguito alla riforma Vassalli del 1989, hanno portato, passo dopo passo, fino alla modifica costituzionale in discussione oggi.

Con il coinvolgimento della sinistra. Che era, sia pur timidamente e vagamente, ancora garantista. Ma solo quando era al governo. Siamo tra il 1999 e il 2001 quando viene approvato, con la modifica costituzionale dell’articolo 111, il “giusto processo” con al centro la terzietà del giudice. Il presupposto della separazione delle carriere. Ma se a proporlo è un ministro di centrodestra, allora lo scenario cambia, perché la logica del sospetto induce a ritenere che il vero obiettivo sia quello di «indebolire l’ordine giudiziario».

Ecco il pendolo tra pm- forte e pm- debole. Anche uno come Luciano Violante che, sia pur ex magistrato, intervistato dal Tempo, non lesina critiche ai suoi ex colleghi e a «qualche posizione eccessivamente aggressiva», adotta la figura del “superpoliziotto”. Teme «che si costituisca una casta di pubblici ministeri separata dai giudici, autogovernata… senza vincoli gerarchici che si potranno muovere liberamente sullo scenario». Sembra descrivere proprio la situazione come è oggi, e l’uso del termine “casta” non pare per niente inappropriato.

Con l’aggravante dell’esistenza di una figura di magistrato, il giudice per le indagini preliminari, quello che non viene mai nominato ma che risulta agganciato troppo spesso, quasi per inerzia, alla figura del pubblico accusatore. Nel 2019, al congresso del Pd, anche Debora Serracchiani, che nella vita è anche avvocata, aveva firmato la mozione del segretario Martina, che prevedeva la separazione delle carriere. Pare quasi giustificare quella “pecca” nella sua carriera proprio Violante, lo stesso che usa parole severe rivolte a chi a sinistra, ha commentato in modo inappropriato l’omicidio di Charlie Kirk, che misura la febbre alle epoche politiche diverse. Dimenticando il fatto che il sindacato dei magistrati, a ogni passo verso le riforme, ha segnato il territorio con gli scioperi. «Trenta anni fa la separazione delle carriere poteva essere utile. C’era davvero integrazione tra giudici e pm».

Silvio Berlusconi aveva ragione, quindi. Anche se contro la timida “riforma Castelli” sulla divisione delle funzioni, il sindacato delle toghe proclamò due scioperi. E lo stesso fece nei confronti di quella della ministra Cartabia, che riuscì a realizzarla. Quella riforma delle funzioni cui tutti oggi si appellano per sostenere che la separatezza tra i due ruoli, quello requirente e quello giudicante, nei fatti c’è già. Perché non esistono più le porte girevoli, che confondevano le acque tra i due diversi compiti. Non solo. Si porta continuamente a esempio l’inchiesta sull’urbanistica di Milano, dopo che il Tribunale del riesame ha annullato i provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di sei indagati. È proprio quello invece l’esempio più calzante di quanto sia urgente e indispensabile separare la sorte dei pm da quella dei giudici.

Chi aveva infatti disposto quegli arresti, proprio in ottemperanza a quanto richiesto dalla procura? Il gip, cioè il giudice terzo che dovrebbe essere il controllore della pubblica accusa. Uno squilibrio che si riflette anche nel Consiglio superiore della magistratura, dove il soggetto forte è di nuovo il pm, in grado di condizionare attraverso il suo potere di voto sulle progressioni di carriera, anche i giudici più indipendenti. È l’ enorme problema, come sottolineato dal ministro Nordio nell’intervista al Corriere della sera, di «una magistratura che si riunisce in partiti che si scambiano favori e nomine a pacchetto».

E il sorteggio non è forse il rimedio migliore. Ma questo aspetto della riforma deve essere un vero colpo al cuore, per la magistratura associata, dal momento che anche Debora Serracchiani fa proprio lo slogan delle toghe, secondo le quali «il vero bersaglio di questa maggioranza è il Csm».