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Le dichiarazioni rese dalla Giunta dell’Unione Camere Penali all’indomani della condanna in primo grado del dott. Piercamillo Davigo, non sono piaciute – nel complesso – alla Magistratura italiana; ed anzi qualche magistrato, come ad esempio il dott. Andrea Reale, ha espressamente definito quel comunicato “livoroso”, parlando nientedimeno che di “pubblico ludibrio”, cioè di “strumentalizzazione politica di fatti di cronaca giudiziaria”. In questo modo, i vertici delle Camere Penali sarebbero venuti meno al proprio compito principale, quello cioè di “garantire il diritto di difesa in questo Paese, oltre che la presunzione di non colpevolezza fino ad una sentenza irrevocabile”. Ed ancora venerdì mattina, nel corso di un confronto televisivo che ho avuto con lui, il Presidente di Anm dott. Santalucia ha ribadito, sebbene in modo più sobrio, le medesime censure. La reazione merita attenzione, perché è a mio avviso sintomatica di come la magistratura italiana – genericamente intesa, senza che questo debba impegnare tutti e ciascuno dei magistrati italiani – è sempre vivacemente in prima linea nella disputa e nel confronto politico, ma è – come dire – assai mal disposta a ricevere critiche, o a vedere proprie prese di posizione messe in difficoltà nel confronto dialettico.
In quel comunicato, come è ovvio, non troverete una sola parola sulla vicenda giudiziaria. Nessuna. Non ci pronunciamo mai sul merito delle vicende giudiziarie in corso, nemmeno quando esse colpiscono avvocati che stimiamo, perché dei processi si parla innanzitutto nelle aule, ed a ragion veduta. Abbiamo anzi detto in premessa che la condanna “non scalfisce minimamente”, ai nostri occhi, la presunzione di non colpevolezza del dott. Piercamillo Davigo.
Ci siamo invece occupati di ben altro, e precisamente del tema che più di ogni altro ci sta a cuore. Il tema delle garanzie processuali dell’imputato, e del suo pieno diritto al doppio grado di giudizio di merito ed al giudizio conclusivo di legittimità. Ed è noto a tutti che la magistratura associata in generale, ma il dott. Davigo in particolare, hanno da sempre una opinione diversa sulla cruciale questione. Questo incondizionato diritto di impugnazione sarebbe, cioè, una delle cause della paralisi della giustizia penale nel nostro Paese. Il dott. Davigo è stato ed è la punta di diamante ed anche la più estremista nella rappresentazione e nella divulgazione di questo punto di vista. Lo ha rappresentato per decenni a livello mediatico, mitragliando statistiche non sempre rigorosissime e paragoni un po’ approssimativi con questo o quell’altro sistema giudiziario di altri Paesi, sempre ricorrendo a storielle sarcastiche e paradossali. Piaccia o no, il dott. Davigo è stato ed è il più efficace divulgatore di questo modo di intendere il processo penale e, specificamente, il sistema delle impugnazioni, convincendo legioni di opinionisti adoranti e cittadini in buona fede di quanto fosse esiziale per la collettività l’esercizio indiscriminato di questo diritto.
Dunque, la riflessione dei penalisti italiani non ha riguardato la condanna, sulla quale non abbiamo detto e non diremo una sola parola, e men che mai la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Abbiamo invece commentato la sua immediata reazione: “Farò appello”. E non certo per sindacarne il diritto, figuriamoci! Tutto il contrario: poteva anche non dirlo, talmente ovvio e scontato è, per noi, che chi ha subito una condanna esiga un secondo giudizio. Ma ci siamo chiesti se per caso questa amarissima esperienza, dalla quale gli auguriamo di tutto cuore di uscire indenne, non abbia magari fatto comprendere a lui, e soprattutto ai suoi adoranti sostenitori, quanto sia incomprimibile e non condizionabile il diritto di libertà e di tutela della dignità della persona. Chissà se non sia riuscito a comprendere che nessuna persona può accettare una condanna, senza avere il pieno diritto di impugnarla, quale che sia quella condanna, quale che sia il reato del quale è accusato.
Da sempre ripetiamo, fino alla nausea, che i principi del garantismo non sono sempre intuitivi, e sono facilmente denigrabili o ridotti a caricatura (vero, dott. Davigo?), fino al momento in cui non si prova sulla propria pelle cosa sia il dolore di una imputazione, di un processo, di una condanna che si reputano ingiusti. E questa vicenda rappresenta una straordinaria occasione, del tutto al di fuori del merito di essa, perché non certo solo il dott. Davigo, ma tutti coloro che la pensano come lui, sappiano trarne questo utile, decisivo insegnamento.