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PALAZZO DI GIUSTIZIA PALAZZACCIO PIAZZA CAVOUR CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PALAZZACCIO
La prima sezione penale della Cassazione, ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità dell’articolo 227 del codice penale militare di pace, che punisce la diffamazione tra militari esclusivamente con pena detentiva. Con un’ordinanza depositata il 21 ottobre 2025 (numero 636/ 2025), gli ermellini hanno ritenuto «rilevante e non manifestamente infondata» la questione, sospendendo il giudizio sul ricorso di un maresciallo dell’Aeronautica, condannato in appello a otto mesi per un post del 23 giugno 2020 pubblicato su due profili Facebook e su un sito, in cui associava il decesso di un collega a una “strage silenziosa” di suicidi e accusava Aeronautica, Carabinieri e Ministero della Difesa di inerzia e chiusura al dialogo.
Nel merito, i giudici militari avevano ravvisato la diffamazione aggravata: il militare morto non si era suicidato ma era deceduto per esalazioni di monossido; il riferimento a «indagini in un vicolo cieco» appariva destituito di base; l’accusa ai vertici di «trascuratezza» e di rigetto immotivato di istanze veniva presentata come connessa ai suicidi. La difesa, nel ricorso per Cassazione, ha invocato il diritto di critica, almeno putativo, e la sproporzione della pena detentiva. L’ordinanza ha ricostruito i limiti della scriminante: la critica - anche sindacale, aspra e tagliente - è tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu, ma «non è consentito attribuire ad altri fatti non veri», altrimenti viene meno la finalità critica.
Nella specie, osserva la Corte, la presa di posizione del militare «prende le mosse da un fatto non corrispondente al vero» e si inserisce in una narrazione che accredita una “strategia del silenzio” delle Forze armate.
Chiarito questo aspetto, resta però da stabilire se sia costituzionalmente compatibile che la diffamazione militare comporti solo reclusione, senza alternativa pecuniaria, anche nei casi non eccezionalmente gravi. Per la Cassazione, occorre verificare se l’esclusività della reclusione per la diffamazione militare violi gli articoli 21, 52 e 117 della Costituzione, quest’ultimo per rinvio all’articolo 10 della Cedu, alla luce dell’indirizzo della Corte costituzionale (sentenza numero 150/ 2021) sulla diffamazione comune, che impone al giudice di riservare la pena detentiva ai soli casi «di eccezionale gravità» e di optare altrimenti per la multa.
Secondo la Cassazione, quel bilanciamento vale anche nel contesto militare, dove la tutela della disciplina convive con la libertà di espressione. L’articolo 10 Cedu “non si ferma davanti al cancello delle caserme”, sicché le restrizioni devono essere necessarie e proporzionate. La prima sezione ha sottolineato che la giurisprudenza costituzionale ha già ammesso pene sostitutive e pecuniarie nel perimetro militare. Il legislatore, con la recente disciplina del sindacato militare, ha riconosciuto ai rappresentanti eletti la facoltà di «manifestare il loro pensiero in ogni sede» entro limiti di legge.
Il processo, intanto, è stato sospeso e gli atti sono stati inviati alla Consulta, la quale, qualora dovesse accogliere la questione, permetterà al giudice militare di applicare anche la multa, riservando la reclusione ai soli casi davvero eccezionali.


