«Nessuno è al di sopra della legge», ha tuonato Karim Kahn dai microfoni della Cnn in un’intervista rilasciata a Christiane Amanpour. Non lo sono i comandanti di Hamas responsabili dei pogrom del 7 ottobre, non lo sono i dirigenti politici israeliani responsabili dei massacri di civili nella Striscia di Gaza.

Il procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aja ha fatto capire che lui non guarda in faccia nessuno, neanche Benjamin Netanyahu, raggiunto da un clamoroso mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Prima di lui, a finire nel mirino di Kahn un altro grosso calibro della politica mondiale, il presidente russo Vladimir Putin incriminato nel marzo 2023 per le deportazioni illegali di bambini ucraini, lo smacco fece infuriare il Cremlino che reagì inserendo il procuratore nella lista delle persone ricercate.

Sdegnata invece la reazione di Netanyahu che ha evocato «una vergogna e un oltraggio di proporzioni storiche», mentre l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan accusa Kahn addirittura di antisemitismo. Contrario all’iniziativa anche la Casa Bianca che definisce «vergognosa» la comparazione tra l’esecutivo israeliano e i terroristi». C’è da dire che anche l’ufficio politico di Hamas rifiuta l’equivalenza messa in piedi dalla Cpi che «pone sullo stesso piano le vittime e i carnefici» si legge in un comunicato del movimento islamista il quale ritiene «illegale» il mandato di arresto nei confronti dei suoi leader. Kahn però non sembra per nulla turbato dalle critiche che piovono a 360 gradi e, incassando il sostegno dell’Europa, promette che andrà avanti, dritto per la sua strada.

È dall’inizio degli anni novanta che Karim Kahn affronta le violazioni dei diritti umani per la corte dell’Aja, avendo lavorato, giovanissimo, nel tribunale sui crimini in Ruanda e in ex Yugoslavia. Giurista di formazione, per diversi anni ha oscillato tra la carriera di difensore e quella di giudice inquirente. Da avvocato ha accettato di difendere figure illustri come l’ex presidente della Liberia Charles Taylor (ma abbandonò il caso dopo la prima udienza) o il figlio di Muammar Gheddafi Said o ancora il vicepresidente del Kenya William Ruto.

Prima che si insediasse a capo della procura dell’Aja i suoi oppositori gli hanno rinfacciato di aver preso le difese di autocrati e dittatori ma Kahn non si è scomposto, rivendicando il suo lavoro di legale nella cornice dello Stato di diritto. L’assoluzione di William Rutto gli è valsa il sostegno decisivo del Kenya quando è stato eletto per una manciata di voti nel luglio 2021. Insediandosi con un’idea fissa: dare più forza ed efficacia alla Corte.

Il bilancio dei primi vent’anni di attività della Cpi è stato infatti risibile, quasi decorativo: oltre i due terzi dei casi presentati ai giudici sono stati archiviati per totale mancanza di prove, appena cinque le condanne emesse. E il tribunale conta attualmente decine di latitanti. Un audit concluso nel settembre 2020 identificava queste carenze mettendo in luce la mancanza di visione e di strategia giudiziaria dei primi due procuratori della Corte, Luis Moreno Ocampo e Fatou Bensouda.

Il primo atto da procuratore generale, nel settembre 2021, è stata la riapertura delle inchieste per crimini di guerra contro il Talebani e le milizie dello Stato islamico Korashan attive in Afghanistan. Il governo di Kabul aveva ottenuto la sospensione del procedimento dal procuratore Bensouda, sostenendo, invano, che il suo sistema giudiziario potesse giudicare i reati.

Il principale obiettivo strategico del suo mandato, che scade nel 2030, è l’estensione dei poteri della Cpi; solo 123 Stati hanno infatti ratificato lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte il 17 luglio 1998. Ad esempio nazioni di peso come Stati Uniti, Cina, India, Russia e lo stesso Israele non l’hanno ratificato. Inoltre, lo scorso febbraio, Kahn ha annunciato di voler perseguire i «crimini ambientali», considerandoli cause o conseguenze dei crimini di guerra e contro l’umanità di cui si occupa la sua giurisdizione.